L’evento mediatico in tema di disabilità del 2019 è stato la fiction di Raiuno Ognuno è perfetto [se ne legga già ampiamente anche sulle nostre pagine qui e qui, N.d.R.], riuscito esempio di narrazione della disabilità.
La commedia, registro narrativo scelto per raccontare la storia, consente di uscire dalla realtà per permettersi divagazioni nel campo del ridicolo, a beneficio dell’accentuazione del messaggio preminente. Ognuno è perfetto, con la sua profonda verosimiglianza, è riuscito a raccontare una verità, una verità a volte scomoda, senza nascondere nulla delle persone con sindrome di Down, anche se forse qualche soggetto è rimasto tagliato fuori. Questo ci ha offerto un vademecum sulla situazione delle persone con sindrome di Down e, di riflesso, un prontuario per conoscere meglio la disabilità in generale.
Dal gruppo di ragazzi con sindrome di Down – invero né tutti ragazzi né tutti con trisomia 21 – emergono storie realistiche che toccano molti aspetti salienti della disabilità, compresi quelli del rapporto disabilità-collettività.
Se il punto di partenza è il lavoro, con questa comitiva di personaggi impegnati in un’azienda di cioccolato, quello di arrivo è il raggiungimento di un punto di equilibrio per ognuno di loro e dei personaggi che li circondano. E tutto questo passando attraverso una serie di episodi che illustrano varie verità di disabili e non. Montato il puzzle, l’immagine è chiara: non c’è autonomia senza compartecipazione della comunità, dell’ambiente. Per tutti.
Gli autori, benché ispirati dalla serie belga Tytgat Chocolat, non ci hanno tenuto nascosto nulla (anche grazie alla RAI che ha dato loro spazio). Ci vuole fegato a parlare sul canale nazionale in prima serata di sesso fra persone con disabilità e di matrimoni che vanno in crisi. Non ci è stato propinato un mondo dove le persone con sindrome di Down sono le stereotipate figure brave, affettuose e capaci. Ci è stato fatto capire che queste persone hanno un disagio cognitivo e possono non essere autosufficienti. Dipende dalla condizione di ognuno, fisiologica e, soprattutto, familiare.
Le famiglie: non si è omesso che ci sono nuclei dove si fatica a convivere con la sindrome di Down, vuoi per questioni caratteriali che per questioni economiche. E tuttavia non ci è stata data questa come unica chiave interpretativa delle famiglie con una persona disabile. Ci è stato detto che il dramma della perdita di una figlia, con sindrome di Down, si può non superare mai. Sino a negarsi di poter amare ulteriormente. E, anche qui, ci è stato fatto capire che non sempre è così.
Ci hanno detto chiaramente che ci sono aziende, e meccanismi d’assunzione, a cui non frega nulla delle persone con disabilità, anche se la legge ne impone l’assunzione. E ci hanno fatto capire che le residenze o i gruppi più o meno di lavoro dove le persone con disabilità vengono destinate, spesso non forniscono benefìci sull’autonomia e l’autostima delle persone. Anzi, le sviliscono in un nebuloso grigiore, dove l’essere comunità non è stare insieme, ma uno squallido non stare da altre parti.
Si è visto il menefreghismo di alcuni verso le persone con disabilità e le persone snob che si scandalizzano per un piatto servito male da una persona disabile. Ma il piatto era veramente servito male, pertanto la snobberia può trovare una sua giustificazione.
E allora sono emersi i limiti di questo gruppo di persone: “ognuno è perfetto” perché non esiste un bacino di perfezione assoluta in quella nicchia di specie vivente che si chiama umanità. Ci sono limiti, cui rispondere colmando la distanza fra la possibilità offerta e la domanda richiesta. E infatti, quando si cambia il modello del locale che aprono i ragazzi, destinandolo a una clientela più vasta, dove gli operatori esercitano il proprio ruolo in base alle proprie capacità, allora tutto funziona. Non è un abbassare il livello del locale dal lussuoso al popolare, è un adattare le risorse all’occasione. A beneficio del consumatore, del personale e dei guadagni. Si tratta di abbattere la distanza fra condizione di salute e ambiente, quella che definisce la disabilità.
Poi c’è quell’anziana signora, in carrozzina, muta e saggia che parla attraverso una voce narrante che ne interpreta i pensieri. È una straordinaria Piera Degli Esposti che recita con gli occhi. Che ruolo hanno gli anziani nella società? E quelli con disabilità? La fiction non approfondisce perché non è il luogo per farlo, ma vi getta luce con decisiva maniera.
La serie rischia di “sbavare sul linguaggio” quando usa il termine Down come aggettivo, ma, proponendolo come termine necessario per riproporre l’atteggiamento culturale della persona che lo usa, le è concesso.
Il punto più alto lo tocca con il suo messaggio sull’amore: per un rapporto intenso, anche carnale, ciò che conta è la complicità, come la chiamo io, non la quantità di pelle a contatto.
Tutto questo, tutti questi piccoli aneddoti, questi scenari di quasi verità, definiscono un bagaglio conoscitivo cui lo spettatore è messo di fronte per comprendere la situazione in cui si trovano le persone con sindrome di Down e le loro famiglie. Nella fiction non c’erano tutte le persone con sindrome di Down e tantomeno tutte le persone con disabilità, ma c’era un realismo tale che lo spettatore ora sa molto di più sulle persone con la sindrome di Down e i loro congiunti.
Emerge un aspetto, limpido e possente: sia la fiction che la comunità di cui essa parla funzionano in virtù dell’identità dei personaggi. Ognuno, con i suoi pregi e i suoi difetti, serve affinché l’insieme funzioni. Senza legalizzare i criminali, la serie insegna che la società ha bisogno di ognuno. Chi sono i disabili? Tante persone diverse.