Quella meglio nota come Convenzione di Istanbul è in realtà la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica del 2011, ed è stata ratificata dall’Italia con la Legge 77/13. Essa è anche, più semplicemente, il riferimento teorico e normativo per chiunque voglia occuparsi di violenza di genere sul territorio europeo.
Gli obiettivi di tale Convenzione possono essere schematicamente riassunti in tre azioni che iniziano con la lettera P: Proteggere, Prevenire, Perseguire. Essa, infatti, si prefigge di «proteggere le donne da ogni forma di violenza e prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica» (articolo 1, lettera A). Poiché l’uguaglianza e la non discriminazione sono due principi cardine della Convenzione stessa, è lecito domandarsi se, ed in che termini, essa si sia occupata della violenza nei confronti delle donne con disabilità, visto e considerato che esse «hanno da 2 a 5 volte più probabilità di essere vittime di violenza rispetto alle donne senza disabilità e sono soggette a sterilizzazione forzata e ad aborti contro la loro volontà», come ha avuto modo recentemente di ricordare l’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, in relazione all’ultimo 25 novembre, Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne.
Ad un primo esame, dobbiamo ammetterlo, questa verifica è abbastanza deludente: in 81 articoli e un allegato, infatti, la disabilità risulta citata solo due volte, ovvero nel Preambolo, quando tra i vari trattati internazionali presi in considerazione per la stesura della Convenzione è espressamente indicata anche la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità e nel comma 3 dell’articolo 4 (Diritti fondamentali, uguaglianza e non discriminazione), quando, enumerando tutte le possibili cause di discriminazione espressamente vietate, è citata, appunto, la disabilità.
Tutto qui? Se vogliamo fermarci alla lettera, tutto qui. Se però leggiamo con più attenzione e riflettiamo su alcuni passaggi della Convenzione, scopriamo qualcosa di diverso. Vediamo cosa nel dettaglio.
Il Capitolo III è dedicato alla prevenzione. In merito a questo aspetto è stabilito che «tutte le misure adottate ai sensi del presente capitolo devono prendere in considerazione e soddisfare i bisogni specifici delle persone in circostanze di particolare vulnerabilità, e concentrarsi sui diritti umani di tutte le vittime» (articolo 12, comma 3, grassetti nostri in questa e nelle successive citazioni testuali).
Dunque, si parla di misure rivolte a persone che versano in circostanze di particolare vulnerabilità, e si riconosce che esse hanno bisogni specifici che vanno considerati e sodisfatti. Le donne con disabilità possono essere tutelate in modo adeguato da questa disposizione? Diremmo proprio di sì. Di più, è verosimile ritenere che chi ha redatto la Convenzione abbia volutamente omesso di indicare le tutte possibili cause di particolare vulnerabilità, per accordare a qualunque donna particolarmente vulnerabile una protezione adeguata, a prescindere dalla causa specifica della vulnerabilità. In altre parole, non rileva che la particolare vulnerabilità derivi dall’avere una disabilità, dall’orientamento sessuale, dall’identità di genere, dall’età, dalle condizioni di salute, dalla razza ecc., è invece importante che la donna particolarmente vulnerabile riceva un supporto adeguato.
Analoga formulazione si trova nel Capitolo VI, in tema di protezione e sostegno, dove si legge: «Le Parti si accertano che le misure adottate in virtù del presente capitolo: […] soddisfino i bisogni specifici delle persone vulnerabili, compresi i minori vittime di violenze e siano loro accessibili» (articolo 13, comma 3).
In questo passaggio abbiamo un ulteriore elemento: quello dell’accessibilità. Per comprendere appieno questa disposizione dobbiamo tenere presente che il concetto di accessibilità può essere declinato in tantissimi modi diversi. Per una donna con disabilità motoria significa in genere accessibilità fisica; per una donna non autosufficiente potrebbe implicare l’attivazione di un servizio di assistenza personale che le consenta di soggiornare in una casa rifugio; per una donna straniera può significare accessibilità linguistica; per una donna indigente potrebbe intendersi in termini di accessibilità economica e così via.
Anche in questo caso, la scelta di lasciare la formulazione generica, permette di adattarla alle più diverse situazioni, dotando il sistema della flessibilità necessaria e sufficiente a fronteggiare le situazioni più diverse.
Il tema dell’accessibilità ricorre anche nelle disposizioni sulle case rifugio: «Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per consentire la creazione di rifugi adeguati, facilmente accessibili e in numero sufficiente per offrire un alloggio sicuro alle vittime, in particolare le donne e i loro bambini, e per aiutarle in modo proattivo» (articolo 23); e in quelle sul supporto alle vittime di violenza sessuale: «Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per consentire la creazione di centri di prima assistenza adeguati, facilmente accessibili e in numero sufficiente, per le vittime di stupri e di violenze sessuali, che possano proporre una visita medica e una consulenza medico-legale, un supporto per superare il trauma e dei consigli» (articolo 25).
C’è poi l’articolo 46, in tema di circostanze aggravanti, che stabilisce che nel determinare la pena per i reati stabiliti in conformità alla Convenzione, debba considerarsi circostanza aggravante, tra le altre, quella in cui «il reato è stato commesso contro una persona in circostanze di particolare vulnerabilità».
Un altro riferimento indiretto alle donne con disabilità può essere rinvenuto nella disposizione che stabilisce che debbano essere penalmente perseguiti l’aborto forzato e sterilizzazione forzata (articolo 39).
Ora, se è vero che le donne con disabilità non sono le uniche vittime di questo tipo di reati così mortificanti – essi infatti sono stati praticati anche, ad esempio, su base etnica -, è pur vero che a tutt’oggi esse vi sono esposte anche in Europa (si veda, a tal proposito, il rapporto Ending forced sterilization of women and girls with disabilities, adottato dall’Assemblea Generale del Forum Europeo sulla Disabilità nel 2017 e il seguente approfondimento curato da chi scrive su queste stesse pagine).
Davanti ai dati impietosi che quantificano il fenomeno della violenza di genere nel nostro Paese (Violenza sulle donne, ogni 72 ore un femminicidio, tre su quattro in casa, titolava alla fine di novembre uno speciale pubblicato nel sito dell’agenzia «ANSA.it», a firma di Emanuela De Crescenzo), c’è chi pensa che siamo davanti ad un’emergenza nazionale. Ma si tratta di un’interpretazione sbagliata. Le emergenze, infatti, si caratterizzano per essere episodiche e transitorie, mentre la violenza sulle donne, chiamando in causa i nostri modi di stare in relazione, si connota come fenomeno strutturale.
Non è, per intenderci, una di quelle situazioni che si normalizzano da sole dopo una fase acuta (come un terremoto, dove l’unica cosa che possiamo fare è aspettare che la terra smetta di tremare), qui, perché cambi qualcosa, è necessario mettere in campo interventi strutturali.
«È ormai urgente riscrivere la grammatica delle relazioni affettive», ha sintetizzato in modo molto efficace la filosofa e scrittrice Michela Marzano in un testo recentemente pubblicato sul suo blog personale. Forse però questa riscrittura deve investire anche i modi di contrastare la violenza. Forse dovremmo smettere di concentrarci, come di solito facciamo, su una “particolare vulnerabilità” alla volta, quella che conosciamo meglio, quella che ci tocca personalmente, o che riguarda persone significative per noi (quella delle donne con disabilità, nel nostro caso).
Sotto questo profilo, la Convenzione di Istanbul, prescrivendo tutele per tutte le persone che, per i motivi più diversi, sperimentano una condizione di “particolare vulnerabilità”, si rivela come il modello di contrasto alla violenza più inclusivo che si possa immaginare. Infatti, un modello che tutela tutte le persone con “particolari vulnerabilità”, tutela anche le donne con disabilità. Se lo avessimo compreso sin da subito, magari ci saremmo risparmiati/e il senso di delusione iniziale: è vero, la disabilità non è espressamente citata in relazione alle singole disposizioni contenute nella Convenzione, ma in un modello come quello descritto, questa citazione è davvero necessaria?
Una nota aggiuntiva
La pubblicazione di questo approfondimento, nel mese di dicembre scorso, ha suscitato diverse riflessioni in alcune donne che mi inducono a specificare meglio alcuni aspetti.
L’idea di scrivere questo testo scaturisce dalla circostanza che i pochi riferimenti specifici al tema della disabilità contenuti nella Convenzione di Istanbul hanno indotto qualcuna a ritenere che le donne con disabilità non fossero sufficientemente tutelate dalla stessa Convenzione.
Come ho avuto modo di argomentare nel testo, non ritengo che questa lettura sia corretta, chiarire questo aspetto serve ad applicare in modo corretto le disposizioni contenute in essa (quelle sull’attenzione per persone in circostanze di particolare vulnerabilità, e quelle sull’accessibilità), e a non fornire l’alibi di una presunta lacuna giuridica per le inadempienze che ancora oggi ci troviamo a constatare in questo campo.
Un’ulteriore riflessione ha voluto intendere in modo provocatorio l’osservazione che la citazione della disabilità in relazione alle singole disposizioni contenute nella Convenzione non fosse necessaria; considerando cioè l’invisibilità che ancora connota il fenomeno della violenza nei confronti delle donne con disabilità – mi è stato fatto notare – il richiamo esplicito alla disabilità è ancora necessario.
Credo che la Convenzione di Istanbul abbia avuto il merito di far emergere delle convergenze tra donne che, sia pure per motivi diversi, sperimentano una particolare vulnerabilità.
Provo a spiegarlo con un esempio. Una donna con disabilità esposta al rischio di subire la sterilizzazione forzata, e una donna che in ossequio ad una particolare tradizione è esposta al rischio di subire l’infibulazione (mutilazione genitale femminile), in realtà stanno combattendo la stessa battaglia, quella per il riconoscimento dei diritti della sfera sessuale e riproduttiva e per preservare l’integrità del proprio corpo. Nessuna di queste due donne deve rinunciare alla propria specifica battaglia, ma ognuna, chiedendo attenzione per la propria rivendicazione, deve essere disponibile a prestare attenzione alla rivendicazione dell’altra, soprattutto se, come in questo caso, gli elementi di convergenza sono abbastanza evidenti. Detto ancora più chiaramente: è corretto continuare lavorare per far emergere e dare visibilità alla violenza nei confronti delle donne con disabilità, ma è anche importante mettere a fuoco che ci sono pure altre donne che stanno portando avanti rivendicazioni analoghe, e che mettersi insieme può consentire di raggiungere una visibilità e un peso politico maggiori di quelli che ogni specifica causa raggiungerebbe singolarmente.
Non si tratta, insomma, di rinunciare al proprio obiettivo – quello non si tocca -, ma di valutare se le strategie messe in campo sino ad oggi siano le più adatte a conseguirlo. (Simona Lancioni)
Per approfondire il tema della violenza nei confronti delle donne con disabilità, suggeriamo innanzitutto di accedere alla Sezione La violenza nei confronti delle donne con disabilità nel sito di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa).
Sul tema più generale Donne e disabilità, si può invece fare riferimento al lungo elenco di testi da noi pubblicati, presente a questo link, nella colonnina a destra dell’articolo intitolato Voci di donne ancora sovrastate, se non zittite, oltreché alla Sezione Donne con disabilità, anch’essa nel sito del Centro Informare un’h.