Attendevamo il maestro con ansia. Gli scolari della contrada erano relegati negli ultimi banchi e il maestro non lesinava sprezzanti giudizi, cui si accompagnavano sonori ceffoni e continue punizioni.
Avevamo finito di recitare la preghiera mattutina, quando entrò il bidello. Bisbigliò qualche parola al maestro, che nel frattempo aveva cominciato a fissarmi. Lo seguii con una preoccupazione crescente nei lunghi corridoi deserti. Scale e corridoi, fino a quando giungemmo di fronte alla porta di una classe. Entrammo. La maestra si rivolse a me con aria stizzita: «Fai uscire da sotto i banchi quell’idiota!» (era il “modo ufficiale” con cui venivano definiti quelli che sarebbero poi stati chiamati “subnormali”).
Frequentava la “scuola speciale” con altri come lui. Erano tutti figli di contadini. Per noi, che un coetaneo frequentasse la “scuola speciale”, era una cosa normale; tornavamo comunque a casa insieme ed eravamo sempre compagni di giochi. Erano gli adulti che giudicavano il giusto e il non giusto, e ne subivano le conseguenze.
Quando rientrai, tutti volevano sapere dove mi avesse portato il bidello, e mi informarono che Attilio non sarebbe più venuto a scuola. Il maestro non aveva detto il perché. Avevamo notato che ultimamente camminava male ed era sempre stanco, ma non ci eravamo preoccupati, perché lui non giocava mai con noi nell’ intervallo. Alla fine dell’anno scolastico andammo al suo funerale.
Anche Lena, una bambina della contrada, aveva cominciato a camminare male e tempo dopo era ricomparsa su una sedia a rotelle. Per certe malattie non c’erano cure. Bisognava solo attendere, sperare, e ricordarli nel rosario della sera.
Terminati gli studi superiori, dopo un anno di supplenze in paesi di montagna immersi in una coltre inamovibile di neve, mi trovai a lavorare in un istituto privato sulle sponde del Lago di Como, per poi trasferirmi al nascente Laboratorio-Scuola di Lecco.
Ebbi così modo di assistere alla definitiva chiusura delle “scuole speciali” e delle “classi differenziali”, veri e propri ghetti scolastici. Nel frattempo si era cominciato a riflettere su cosa fare per loro, dopo la scuola dell’obbligo.
A Lecco l’allora Amministrazione decise di occuparsi dei disabili al termine della scuola media. In accordo con il Centro di Psicologia di Como, sorse una struttura che consentì la presa in carico dei “subnormali” giovani e adulti del territorio. La collaborazione con personalità di rilievo, quali Ettore Caracciolo, Marcello Cesa-Bianchi, Silvio Ceccato ed altri portò l’esperienza lecchese ad essere un modello riconosciuto a livello europeo.
I tempi stavano cambiando, la società usciva dal rigido conservatorismo per aprirsi alla rivoluzione culturale del Sessantotto. La scuola divenne il modello di integrazione, un luogo di conoscenza, sviluppo e inclusione per tutti. Nessuno escluso.
Ora, a distanza di oltre quarant’anni dalla Legge 517/77, che diede avvio all’integrazione scolastica, possiamo considerare le criticità emerse e proporre adeguate azioni correttive, integrative e innovative.
Nel corso degli ultimi decenni, il numero di studenti con disabilità inseriti nel sistema scolastico italiano ha subito un costante incremento. La scuola, però, non è riuscita e non riesce – fatta eccezione per alcune lodevoli iniziative – a preparare adeguatamente e ad orientare al lavoro gli studenti con disabilità. La scuola, infatti, si è sempre più allontanata dal mondo del lavoro – sempre più veloce nei cambiamenti – e si è impoverita di esperienze concrete di preparazione e avvicinamento al futuro lavorativo degli studenti. Le attività pratiche sono rimaste appannaggio delle strutture di formazione professionale, spesso ricche di apprendimenti anacronistici rispetto alle capacità degli studenti e alle esigenze sociali e di mercato. Anche le esperienze di Alternanza Scuola-Lavoro spesso non hanno alcun significato formativo ed esperienziale.
Riguardo poi agli studenti con disabilità, il continuo e rapido mutare del mondo del lavoro, che si intreccia con le trasformazioni sociali, ne rende sempre più problematico il passaggio dalla scuola alla vita adulta lavorativa. Il percorso condiviso in tanti anni con altri coetanei si divide, cosicché a loro spesso rimane solo la disoccupazione e il ritorno in famiglia, in qualità di figli “eterni adolescenti”.
I giovani con disabilità – e soprattutto quelli con disabilità intellettive – hanno scarse prospettive di acquisire un’autonomia personale, sociale ed economica che consenta una qualsiasi forma di affrancamento dalla famiglia. Ne consegue una dilatazione dei tempi di attesa, un lungo periodo dove il disagio e l’ansia crescono parallelamente alla paura di non farcela. Le famiglie non possono essere d’aiuto, non conoscono il mercato del lavoro. Come si accede? Come funziona? Quali sono le procedure? Quali certificazioni servono? E quali sono i servizi di supporto sul territorio?
I rischi di una regressione verso esiti emarginanti sollecitano dunque la costituzione di servizi di orientamento socio-lavorativo, per gli studenti con disabilità che frequentano l’ultimo anno del percorso scolastico.
Al termine del percorso scolastico, infatti, si verifica una situazione in cui devono essere ricreati il ruolo sociale, l’identità personale e le prospettive di vita. Il giovane si sente solo ad affrontare il mondo adulto, e i genitori si trovano ad essere testimoni impotenti delle difficoltà di inclusione del loro figlio. Purtroppo la quasi totalità degli studenti con disabilità, terminato il percorso scolastico, fatica ad avere un’adeguata collocazione lavorativa, e non trova nemmeno un utile sostegno per costruire una prospettiva di vita, fondata sulle capacità, le potenzialità, le aspirazioni, e soprattutto sui bisogni.
Si tratta di una situazione che disorienta la famiglia, relegando il giovane nella stretta cerchia familiare, dove l’assenza di impegni e relazioni produce uno stato di insoddisfazione, frustrazione e isolamento che coinvolge tutto il nucleo. Crollano così le aspettative familiari e le prospettive di vita del giovane stesso.
Oggi il mercato del lavoro richiede lavoratori “super-abili”: ne consegue un crescente numero di esclusi, giovani inoccupati che rimangono per anni iscritti nelle liste del Collocamento Mirato, senza ricevere alcuna proposta. Restano così in balia di un mercato del lavoro sempre meno accessibile, un tessuto produttivo meno inclusivo e servizi dedicati spesso inefficienti e inefficaci.
La società, il lavoro, la vita quotidiana si fanno sempre più complessi ed è difficile, per chi vive in condizioni di svantaggio, affrontare i rapidi cambiamenti che gli vengono imposti. Da parte sua, la scuola, sul tema disabilità/lavoro, non può vivere in una “bolla sociale”, con tempi, programmi e politiche proprie, avulse dal contesto socio-economico in cui è collocata.
È necessario pertanto attivare una pedagogia sostenitiva, che favorisca l’acquisizione di abilità indispensabili per accedere al lavoro, promuovendo una formazione lavorativa attraverso attività pratiche e stage utili a rispondere ai bisogni di orientamento e di integrazione socio-lavorativa post-scolastica.
L’attenzione rivolta alla tutela della salute, alla qualità della vita, alla partecipazione ha fatto scaturire la necessità di una maggiore sensibilizzazione culturale rispetto a contraddizioni sociali complesse come la disabilità, soprattutto nella fase di transizione scuola-lavoro e di ingresso nel mondo del lavoro. E tuttavia, la scarsa conoscenza del mercato del lavoro – come funziona, come si accede, quali sono le procedure, quali certificazioni servono, quali sono i servizi disponibili sul territorio – spesso preclude l’inclusione. A tutto ciò si aggiunge la paura personale di non essere adeguati ad affrontare il mondo del lavoro stesso.
Queste amare constatazioni vorrebbero stimolare la creazione di una rete fra scuola, studenti, famiglie e servizi per il lavoro, utile alla ricerca di soluzioni possibili che consentano a tutti i protagonisti di migliorare la situazione attuale e la fiducia nel futuro. Un approccio attivo al tema dell’inclusione socio-lavorativa può aprire infatti la scuola ad una positiva visione dei cambiamenti in atto nel mondo del lavoro, a conoscere le professioni emergenti, le nuove tecnologie, le riorganizzazioni produttive ecc., utili per tutti gli studenti, con e senza disabilità.
Il Progetto di Vita dovrebbe essere realizzato attraverso una “logica a staffetta”, dove il “testimone” viene passato nelle mani di un soggetto sociale in grado di proseguire il percorso esistenziale e formativo. È per questo che la scuola dovrebbe poter disporre di un servizio dotato di competenze professionali adatte a valutare i bisogni, le attitudini, le competenze, le abilità, le potenzialità dello studente ed essere in grado di accompagnarlo alla fruizione dei servizi territoriali, sostenendolo durante il percorso di inclusione socio-lavorativa, per evitare che la maggior parte dei giovani rimangano senza alcuna proposta di lavoro o che i più “fortunati” possano accedere al massimo a qualche tirocinio in àmbiti scarsamente formativi. Qualcuno, tramite progetti e percorsi di accompagnamento al lavoro decisi da altri, approda in “contesti protetti”, in attività create appositamente, o in mansioni marginali all’interno di aziende profit.
Non importa chi fa il primo passo: se la scuola non va al lavoro sia il lavoro ad andarci. Non mancano servizi e risorse economiche e servizi adeguati sul territorio. Serve una pressione sul Collocamento Disabili affinché diventi il motore di un’iniziativa ponte fra la scuola e il lavoro. In tal senso, nemmeno i più recenti provvedimenti, ovvero i Decreti Legislativi 66/17 e 96/19, sembrano in grado di sviluppare un Piano per l’Inclusione che vada al di la dei buoni intenti; e del resto, una scuola orfana di pedagogia e ricca di didattica non può educare e formare il futuro cittadino/lavoratore; inoltre, ogni vera riforma politica e amministrativa deve passare da una revisione culturale che nei confronti della disabilità non è ancora compiuta, nonostante siano passati già vari decenni.