Sono un’assistente educativa per l’autonomia e la comunicazione e da circa tredici anni mi occupo di inclusione scolastica con i bambini con disabilità.
Quello che è accaduto in questi giorni, legato all’emergenza coronavirus, con la conseguente chiusura delle scuole, mi ha mostrato ben “tre facce della medaglia” dell’inclusione scolastica.
I fatti, in breve: venerdì 7 marzo, Veronica Mammì, assessore alla Persona, alla Scuola e alla Comunità Solidale del Comune di Roma, seguita a breve distanza dal ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina, comunica la volontà di convertire le ore di assistenza scolastica degli OEPA di Roma (Operatori Educativi per l’Autonomia e la Comunicazione) in assistenza domiciliare, anche sulla scorta della richiesta proveniente dal mondo dell’associazionismo e delle centrali cooperative.
Gli operatori del Comune di Roma, febbrilmente, si organizzano, fanno assemblee, producono documenti.
Nella sede dell’Assessorato, il 9 marzo mattina, ascoltati gli operatori, l’Assessore decide il blocco della misura. La sera stessa, poi, ci sarà il Decreto del Presidente del Consiglio che disporrà, praticamente, il blocco delle attività per l’emergenza sanitaria in corso.
E dunque, questa è la “prima faccia della medaglia”.
Le Associazioni delle famiglie, che hanno caldeggiato la misura, richiedendola per sopperire alla chiusura delle scuole, Associazioni, per altro, che hanno fin qui caldeggiato la nostra lotta per l’internalizzazione.
Le famiglie, che conosco bene, perché, nonostante le cooperative “proibiscano” a noi operatori di avere diretti contatti, pure le conosciamo, parliamo con loro, perché, semplicemente, ci “affidano” i loro figli, che conosco bene perché per anni, nel servizio domiciliare, quello vero (il SAISH, servizio domiciliare che le cooperative gestiscono per conto del Comune), sono andata nelle loro case, condividendo le piccole gioie dei progressi piccolissimi e la frustrazione e l’impotenza di fronte al fallimento.
Famiglie che spesso sono lasciate sole dallo Stato, che non hanno la possibilità di pagare le terapie ai loro figli e devono accontentarsi di due ore di logopedia a settimana fornite dalle ASL, anche con diagnosi di autismo, ovvero con la necessità di terapie-cognitivo comportamentali estremamente costose e impegnative.
Famiglie che si chiudono in loro stesse, che si sentono sole e per le quali il “mondo fuori”, gli altri, quelli nei supermercati che si scansano vicino ai loro bambini che sfarfallano, è, a volte, nemico e ostile.
E poi c’è la “seconda faccia della medaglia”, noi assistenti all’autonomia e alla comunicazione.
Noi che da vent’anni siamo i “paria delle scuole”, senza diritti, con stipendi da fame, ignorati dallo Stato e dai mezzi di comunicazione. Eppure, secondo l’ISTAT, siamo un piccolo esercito di ben 54.000 persona, almeno 2.500 nella sola Roma.
Noi che ci formiamo da soli, che cerchiamo di mantenere alta la motivazione, che veniamo da contesti formativi disparati e che spesso sopportiamo il fatto che nessuno sa davvero cosa facciamo a scuola.
Noi che stiamo cercando, con fatica, di cambiare le cose, che abbiamo spiegato all’assessore Mammì come i progetti domiciliari vadano pianificati da ASL e Municipi, che siano necessari controlli e verifiche, che il nostro lavoro a scuola è nell’équipe e sulle basi progettuali del PEI (Piano Educativo Individualizzato), che lavoriamo per l’inclusione all’interno della classe e che, davvero, un intervento domiciliare pensato così è inattuabile, anzi, potrebbe compromettere una funzione educativa che nasce e si sviluppa nel setting scolastico.
Senza contare i problemi di sicurezza legati al virus, per noi e i per i bambini, per le nostre e le loro famiglie.
E così, alla fine di tre giorni che sono sembrati infiniti, l’Assessore ha fatto marcia indietro.
A questo punto mi ritrovo a pensare che basterebbe smettere di pensarsi sempre in contrapposizione, che bisognerebbe ragionare insieme, vedersi e riconoscersi reciprocamente, ognuno dal suo lato della medaglia.
A sera, ho chiamata lo mamma del bambino con autismo che seguo ormai da anni, per sapere come stessero e per sapere cosa pensava di tutto questo. Stava bene, e mi ha passato il bambino.
«Come stai, maestra Paola?», mi dice. «Molto bene, “Scimmia”, e tu?». «Bene… ma ora vado a giocare». Perché a lui, del coronavirus, dei problemi degli assistenti all’autonomia, delle preoccupazioni delle Associazioni e degli Assessori, proprio non importa. Perché non è un bambino con autismo. È un bambino. La “terza faccia della medaglia”.