Premetto che non sono più madre di persona con disabilità. Non lo sono più perché l’anno scorso ho perso mio figlio disabile in un tragico incidente dovuto alla mancata messa in sicurezza di un luogo, pubblicizzato e fortemente promosso dal punto di vista turistico, dove transitava insieme ad altri “colleghi” – così li chiamava lui – del Centro Diurno e i suoi educatori. Un’esperienza di vita comunitaria finita in tragedia a causa della disattenzione e sottovalutazione da parte di chi doveva capire e che con i suoi poteri avrebbe dovuto prevenire ed evitare ciò che è successo.
Ma non è di questo che voglio scrivere, piuttosto questa mia nuova condizione mi permette di dare attenzione alle discussioni e alle azioni di contrasto nei confronti dell’emergenza Covid-19. Non devo barattare i diritti umani di mio figlio con alcuna azione di contenimento messa in atto per tutelare i cittadini. Azioni drastiche, ma che hanno ancora un volta messo in luce la vulnerabilità di una parte di cittadini.
Tutelare quali cittadini: tutti i cittadini o solo quelli che ce la fanno da soli o ancora quelli che sono socialmente visibili?
Sto parlando delle persone con disabilità. Sì, di quelle persone che, se non ci fossero le loro Associazioni rappresentative, starebbero ancora ad aspettare e ad elemosinare un’attenzione. Se non ci fossero state le Associazioni e le loro reti nazionali (le Federazioni FISH e FAND) non ci sarebbe stata, per le persone con disabilità, alcuna citazione nei vari Decreti che il Governo – dopo il primo – ha emanato fino a ieri sera. E non dico le lotte per essere ascoltati…
Sto parlando delle persone con disabilità. Sì, di quelle persone che, se non ci fossero le loro famiglie, sarebbero morte di inedia, di mancata assistenza, di mancata cura, di mancata protezione.
Sono dura, lo so. Ma è la verità.
Inizio dalle persone che frequentavano i Centri Diurni. Persone e operatori. Nessuna distanza sociale, nessuna protezione individuale, perché queste persone con disabilità, per le loro caratteristiche, non sono in grado di mettere in atto le misure indicate dalle Autorità competenti.
Due settimane hanno impiegato queste Autorità a comprendere che la chiusura dei Centri Diurni era indispensabile, due settimane che chissà come ha impiegato il coronavirus a lavorare. Chiusura dei Centri Diurni e tutti a casa, come se la casa – quando c’è – fosse un luogo di protezione e non di ulteriore danno! Tutti a casa senza alcun supporto domiciliare a quei genitori, di solito la madre, che forse lavorano, che forse sono anziani, che forse sono loro stessi ammalati con un andirivieni di linee di contagio da farci una ricerca per “ricercatori del nulla”.
E le scuole chiuse. Tutti a casa, lodevolmente. Ma se le famiglie stanno facendo i salti mortali per accudire i loro figli senza disabilità, cosa è successo alle famiglie con figli disabili e in particolare con figli con disabilità intellettiva e/ con patologie severe? E ovviamente al netto di genitori che non lavorano, che non sono ammalati, che non devono prendersi cura di anziani conviventi.
Alzi la mano chi ha potuto ottenere l’attivazione dei servizi alternativi nell’àmbito dei servizi sociosanitari o socioassistenziali e scolastici. È gradito anche sapere e conoscere dove e come siano stati attivati questi servizi alternativi e quanti alunni e studenti con disabilità siano stati raggiunti.
E parliamo anche dei servizi residenziali per persone con disabilità, luoghi dove vivono persone ognuna con situazioni personali, familiari e sociali complesse e complicate. Luoghi dove si dovrebbe sperimentare l’ambiente familiare che non c’è più o che non c’è mai stato; luoghi dove le complessità e le complicatezze vengono prese in carico da operatori in un ambiente strutturato di vita capace di accogliere la persona e la sua storia. Ambienti in grado di promuovere spazi di crescita personali e collettivi, capaci di stimolare l’acquisizione di autonomie garantendo la possibilità di sperimentarsi.
Il Covid-19 ha spazzato via tutto e le azioni di contrasto, necessarie e indispensabili, hanno travolto queste comunità.
Giustamente, in questi giorni, l’ANFFAS (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale) ha diffuso un comunicato stampa, dichiarando che «i centri residenziali sono delle vere e proprie bombe ad orologeria pronte a scoppiare, è una situazione a dir poco esplosiva che nessuno sta cercando di risolvere, lasciando così in balìa dell’emergenza sanitaria in corso le persone con disabilità, le famiglie e gli operatori» [se ne legga ampiamente anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
È purtroppo vero. Per la tipologia di utenza, questi servizi vanno paragonati alle strutture sanitarie e come tali forniti di adeguati sostegni e mezzi di protezione, materiale e personale.
La verità di questi luoghi è che i loro abitanti non sono in grado di comprendere e di adeguarsi alle prescrizioni anticontagio. All’improvviso le attività basate sulla relazione interpersonale sono state cancellate in cambio di relazioni e comportamenti “asociali”. Gli operatori sono sfiniti nel trasformare le prescrizioni anticontagio in alternative educative anticontagio.
Mancano protezioni individuali e forse le Autorità Sanitarie potrebbero destinare d’ufficio tali protezioni, visto che conoscono la tipologia di servizio, il numero degli utenti e le loro caratteristiche, la quantità di personale. In mancanza, e dovendo proteggere l’utente, l’operatore e la comunità residenziale, si rischia di avere comportamenti inumani e di aperta violazione dei diritti umani: sedazione, contenimento nei letti, azioni di cura limitate se non assenti. Se non si interviene, e se non si è in ritardo, ci sarà un erompere a breve di nuovi contagi e ricoveri. Utenti, operatori e loro famiglie.
E passiamo alle persone con disabilità confinate in casa, come tutti gli italiani. Vogliamo parlare di quei bambini e bambine, giovani e adulti, con disabilità in situazione di elevata dipendenza dai presìdi salvavita, compresa la necessità di assistenza per mantenere in vita quegli stessi presìdi? Molti degli operatori a questo preposti non si sono presentati al domicilio o sono fuggiti, quelli che restano sono reclusi con i loro assistiti. Sappiamo quante siano le persone che non hanno familiari in grado di sostituire gli assistenti? Ho letto di un Ente che ha predisposto una comunità per minori i cui genitori sono ricoverati per coronavirus. Meno male: questi bambini e bambine hanno bisogno di tutto il sostegno e la cura di cui hanno diritto. Ma sappiamo se si siano ipotizzate iniziative di questo tipo anche per le persone con disabilità, oltreché per i minori, i cui genitori si siano ammalati e, notizia di ieri, per gli animali i cui proprietari si siano ammalati?
E parliamo infine delle persone con disabilità, minori, giovani e adulti, segregati nelle case affinché questa emergenza si risolva.
Da parte degli organi d’informazione è una corsa a spiegare chi può uscire e chi no. In sintesi: comprovate esigenze lavorative, assoluta urgenza, motivi di salute, acquisto di alimentari, portare il cane ad espletare i propri bisogni fisiologici.
Comprendo che questa situazione stia mettendo a dura prova tutte le famiglie. Come madre di quattro figli, immagino e sono vicina a tutti i genitori e a quanti li aiutano in questa emergenza. Capisco quanto sia dura e difficile contenere in casa una persona con quelle disabilità che non le permettono di comprendere la situazione, a causa dei suoi problemi di relazione o comportamentali, delle sue disabilità psicosociali.
Per queste persone, in particolare per quelle in situazione di gravità, la reclusione in famiglia porta ad aumentare e rendere ingestibili le crisi di comportamento, con il rischio di abusi e il contenimento fisico e farmacologico.
Non pensare e non prevedere queste necessità significa che le persone con disabilità sono invisibili agli occhi di chi decide per il nostro e per il loro bene. Ma se metto loro il guinzaglio e li faccio passare per il mio animale domestico, rischio?