L’eugenetica come pratica della salvaguardia della razza nasce millenni fa, anche se il termine è stato coniato nel 1883 dal naturalista inglese Francis Galton. Figlia del suo tempo, vuoi per ragioni di sopravvivenza, vuoi per approccio evoluzionistico, è stata metodica prediletta dal nazismo, ma serenamente applicata anche dopo la seconda guerra mondiale nei civilissimi Stati Uniti e in altre nazioni.
Ora sento in questi giorni che proprio gli USA decidono che in alcuni dei propri Stati le persone con disabilità saranno sacrificate rispetto ai sani, in caso di necessità di cura per coronavirus. In molti, anche americani, si sono ribellati. Faticosamente mantengo la calma aggrappato alla storia e al buon senso.
La notizia è stata riportata qualche giorno fa da «Avvenire.it», illustrando appunto la scelta di molti Stati dell’Unione di non curare persone con diverse disabilità per consentire la cura delle altre persone. La questione ruota attorno ai ventilatori meccanici, le macchine per respirare che hanno sostituito il polmone d’acciaio. Siccome le apparecchiature non sarebbero sufficienti per tutti, a un certo punto si tratterà di scegliere e allora certe persone con disabilità verranno sacrificate.
Le Associazioni si sono ribellate, come racconta lo stesso giornale, attraverso la penna di Elena Molinari. È partita qualche denuncia in nome dei diritti civili, cioè del diritto alla vita, diritto inalienabile insito nell’uomo e garantito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Gli Stati Uniti, però, sembra siano “allergici” alle Convenzioni, tant’è che, pur figurando tra i firmatari, non hanno mai ratificato la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Loro sono oltre. Sono al di sopra.
Non entro nel commento di quanto fatto dai singoli Stati. Non tutti i 50 Stati degli USA, va detto, hanno applicato misure restrittive aprioristiche nei confronti delle persone con disabilità. Ma stando a quanto riporta «Avvenire.it», stride la mancanza di una netta presa di posizione centralizzata che, attraverso l’Ufficio per i Diritti Umani del Ministero per la Salute, si è limitato a un blando «le persone con disabilità non dovrebbero essere messe in fondo alla linea per i servizi sanitari durante le emergenze».
Mi ritorna alla mente la questione statunitense degli Anni Sessanta a proposito delle macchine per dialisi, quella che segnò la nascita dei Comitati di Bioetica.
Non c’erano sufficienti macchine per la dialisi per tutti e, dovendo scegliere, anziché affidare la scelta al medico su chi curare, che avrebbe usato criteri soggettivi, ci si affidò a un gruppo assortito di persone, mantenute anonime, che decisero in base a princìpi geografici e di capacità di mantenersi le cure dei prescelti. Ma i macchinari continuarono a essere insufficienti e quindi si stabilirono nuovi concetti per l’assegnazione delle macchine, tenendo conto, in un certo senso, del ruolo sociale del destinatario nella comunità. Negli anni videro appunto la luce i Comitati di Bioetica, più qualificati e in grado di affrontare con oculata ragionevolezza le varie questioni.
Ho deliberatamente fatto un po’ di storia per dire che fare scelte sulla vita non è mai facile. E non che i Comitati di Bioetica siano il bene assoluto. Ma la questione è un’altra: perché scegliere a priori? Cosa stabilisce che le persone con disabilità, soprattutto quelle con disabilità intellettiva, le più soggette alle recenti decisioni statunitensi, valgano meno?
Di fronte a uno scienziato come Stephen Hawking, o a un suo simile meno celeberrimo dal cervello fine e dal corpo aguzzino della sua parola, che cosa avrebbe fatto l’amministrazione statunitense? Temo che lo scienziato non avrebbe avuto scampo, se non fosse stato in grado di tirare fuori in tempo tutto quello che la sua cultura, i suoi studi, gli avrebbero valso il diritto di rimanere in vita sino a diventare faro per l’umanità. Le vite valgono a priori, per il fatto di esistere.
Di fronte a un collo di bottiglia, a un cul-de-sac agghiacciante, bisogna operare delle scelte. Ma quelle scelte vanno ponderate. Non sono forse prima le donne e i bambini a scendere dalle navi in avaria? E perché? Gentilezza, spirito di conservazione della specie o considerazione sulla resistenza maschile a sopravvivere all’affondamento?
Non esiste un priori che escluda una categoria in base alle capacità di apportare benessere alla società o, peggio, in funzione del costo sociale. Un principio del genere ha dato via alle operazioni di eliminazione naziste delle persone con disabilità.
Le persone hanno un valore. La più disabile fra le persone con disabilità porta con sé se non altro il valore di essere “luogo di discussione”. E senza luoghi di discussione si perde il senso critico, senza il quale la società si scava la fossa. Non si può negare il diritto alla vita a priori in base alla capacità di ognuno di vivere una vita degna nella società. Soprattutto perché il concetto di “vita degna” è opinabile ed evocativo di agghiaccianti passate interpretazioni.
Chi ci assicura che fra le persone con disabilità escluse dai trattamenti non ve ne siano alcune, anche una sola, in grado di fornire alla comunità un apporto migliore di molte persone senza disabilità? L’aspetto emergente dell’approccio statunitense sta nel considerare a priori la persona con disabilità quale essere inferiore. È il pregiudizio che è abominevole. Come lo è l’eugenetica ai giorni nostri.
Una civiltà che pianifica chi sta sopra e chi sta sotto è terribile. Se si deve scegliere, se proprio si deve scegliere, si va per singoli in virtù di delicatissime peculiarità che vengono i brividi solo a pensarci quali possano essere. In ogni caso non si procede per categorie sulla scorta di teorie di massa.
Ma io mi auguro che non si arrivi mai a dover scegliere. Perché quando si arriva a quel punto la battaglia ha superato i confini del dramma per sfondare quelli della tragedia, dello sterminio. Una battaglia così è stata condotta male. Il pensiero della vita umana è stato preso in considerazione troppo tardi. Non c’è democrazia se non si pianifica un futuro vitale per tutti.
Dei temi affrontati nel presente testo di Antonio Giuseppe Malafarina, il nostro giornale si è già occupato in varie occasioni in queste settimane. L’elenco dei più recenti contributi da noi pubblicati è presente nella colonnina qui a fianco.