Il 2 Aprile scorso, com’è noto, è stata la Giornata Mondiale per la Consapevolezza dell’Autismo, istituita nel 2007 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. In questi anni ci sono state tantissime iniziative in tutto il mondo per cercare di richiamare l’attenzione sui diritti delle persone con autismo, ma quest’anno, naturalmente, l’evento è stato decisamente diverso e le varie iniziative programmate non ci sono state, per ovvi motivi. La vita di tutti noi, infatti, è stata investita dallo tsunami che porta il nome di coronavirus.
Mai come in questo periodo i fragili sono nudi, deboli, sopraffatti, sono senza rete. Per migliaia di famiglie con a carico una persona autistica lo tsunami è stato devastante, le ha lasciate ancor più sole di prima. Le poche reti di supporto, dalla scuola ai centri educativi all’assistenza domiciliare con gli educatori, sono venute meno. Tutte le persone con disabilità intellettiva hanno dovuto subire, dall’oggi al domani, un cambiamento di routine, senza capire perché o poter essere accompagnate in questo momento. Tutto ciò ha generato in loro un gravissimo senso di disagio e frustrazione.
Parliamo di una situazione drammatica: l’educazione di un bambino con autismo comporta infatti un lavoro intensivo e qualificato, che richiede una preparazione puntuale, un percorso lungo ed estenuante e la mancanza di continuità rischia di vanificare il lavoro di abilitazione fatto.
Per i soggetti più grandi, che ancora vanno a scuola o sono inseriti in (rari) centri o in attività di vita indipendente, si interrompe quella quotidianità, quella routine, quel contatto con i compagni, con le addette all’assistenza, con le educatrici, essenziale per la socialità e l’integrazione.
I ragazzi restano a casa, con le proprie stereotipie, il proprio isolamento, le proprie angosce e tutto questo, nel migliore dei casi, genera una leggera, ma costante, regressione.
Il carico di questa disabilità invalidante sta esaurendo le famiglie, che aggiungono lo stress dell’emergenza a tormenti presenti quotidianamente, da sempre. Tra le paure più pesanti, la possibilità di ammalarsi e ritrovarsi in ospedale con il dramma di chi possa seguire il proprio figlio o figlia o, ancora peggio, vedere ricoverato il ragazzo con disabilità e andare incontro al rischio di un triage sfavorevole, così come sta avvenendo negli Stati Uniti.
Da pochi giorni, inoltre, sempre dagli Stati Uniti, attraverso il CDC (Centers for Disease Control and Prevention), sono arrivati nuovi dati sulla prevalenza dei casi di autismo nei bambini, registrando una crescita che ha portato il numero a un bambino su 54, mentre due anni prima era stato di uno su 59, e di uno su 166 nel 2000. Stabile il rapporto fra maschi e femmine che è di 4 a 1 [se ne legga già ampiamente anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
Molti pensatori, negli ultimi anni, parlano di una competenza emergente chiamata Restartability, ovvero la capacità di ricominciare in modo radicale e positivo nel lavoro e nella vita. Ecco, forse bisogna ripartire da qui, da un nuovo inizio collettivo che rivaluti il concetto di fare rete, di cooperare di premiare e sostenere chi lavora e chi ha idee collettive.
Per il 2 Aprile di quest’anno, quindi, c’è stato poco da celebrare. Il mondo è cambiato e ogni cosa sarà diversa. La perdita di normalità, la paura del pedaggio economico, un nuovo modo di vivere le relazioni: non è un semplice dolore, è un “dolore anticipato”, ovvero quel sentimento che proviamo per ciò che potrà riservarci il futuro, quando questo è particolarmente incerto. Questo rompe il nostro senso di sicurezza, e non è più un dolore personale, ma collettivo.
Per chi ha un figlio con autismo è una sensazione ben conosciuta, fin dal momento della diagnosi, dove ci si rende conto che nulla sarà più come nei progetti o nei sogni. Il “dolore anticipato” è la mente che va verso il futuro e immagina il peggio. Per calmarsi, è necessario vivere nel presente e accettarlo.
L’augurio per tutti, dunque, è di superare quanto prima questo momento e di riscoprire valori di solidarietà, fratellanza e amore che, forse, abbiamo sempre dato troppo per scontati.