Secondo l’ultimo rapporto in questo àmbito pubblicato dall’ISTAT, i presìdi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari attivi in Italia al 31 dicembre 2015 erano quasi 13.000 con 390.689 posti letto complessivi. Rilevanti erano gli squilibri territoriali: i livelli più alti d’offerta, infatti, si raggiungevano nelle regioni del Nord (64% dei posti letto), mentre i valori minimi si toccavano nel Mezzogiorno (10,4% del totale). Tra gli ospiti anziani, 218.000 erano non autosufficienti, con prevalenza di donne (74%).
Il 17 aprile scorso, l’ISS (Istituto Superiore di Sanità), in collaborazione con il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, ha presentato un nuovo aggiornamento (il terzo), riguardante i dati sul contagio da coronavirus in alcune strutture residenziali e sociosanitarie [del primo rapporto ci eravamo già occupati anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
Questo tipo di rilevazioni è iniziato il 24 marzo, utilizzando quale strumento un questionario inviato a 3.420 strutture, censite nella mappa online dei servizi per le demenze, realizzata dall’Osservatorio Demenze dell’ISS (che raccoglie strutture sanitarie e sociosanitarie residenziali, pubbliche e/o convenzionate o a contratto, che accolgono persone prevalentemente con demenza). Al questionario compilato online hanno risposto 1.082 presìdi.
Anche qui va annotato che la distribuzione e la dimensione delle strutture sul territorio non è omogenea, con una maggiore prevalenza di posti letto in Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana, dove attualmente vi è il numero maggiore di persone contagiate dal virus.
Ebbene, secondo questa indagine, dal 1° febbraio 2020 il numero dei ricoverati è stato di 80.131 persone, con una media di 74 per struttura. Tra le maggiori criticità emerse si elencano l’assenza dei dispositivi di protezione individuale, la carenza di personale, l’insufficiente rilevazione della temperatura a ricoverati e personale di servizio, l’incompleta formazione a tutto il personale.
Il numero delle persone decedute è stato di 6.773 di cui 364 risultate positive al test sierologico e 2.360 con sintomi riconducibili al Covid-19. Si tratta certamente di dati sottostimati, considerato che solo un’esigua minoranza degli ospiti delle strutture è stata sottoposto a test e che in caso di positività al virus, poco meno della metà delle strutture erano in grado di isolare il paziente in una stanza singola.
Ma prima del 24 marzo cosa si è fatto? È noto che con il Decreto del Presidente del Consiglio dell’8 marzo scorso sono state limitate le visite di familiari o badanti agli ospiti dei presìdi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari per prevenire il contagio da COVID19, ma il Decreto stesso ha lasciato invariate le modalità di lavoro del personale di servizio al quale non sono stati prescritti e forniti, dalle autorità competenti, i dispositivi di protezione individuale, esponendoli quindi al rischio di contagio e diventando loro malgrado veicoli d’infezione. Le persone ricoverate si sono così trovate esposte al rischio di ammalarsi e nel tentativo di proteggerle sono state adottate misure di distanziamento sociale che le hanno ancor più isolate, private della possibilità di comunicare con l’esterno, prigioniere nella loro camera, senza poter usufruire di un minimo senso di comunità, abbandonate o assistite al minimo e, immaginiamo, con un maggior ricorso a strumenti di contenzione, considerata la generale riduzione del personale. Segnala in tal senso il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale che nel 93% delle strutture censite è in dotazione il registro delle contenzioni.
Tutte queste preoccupazioni, dunque, sono state espresse dal Garante stesso e hanno trovato ascolto nella collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità e con la predisposizione del monitoraggio relativo alle cause di contagio.
La questione dei contagi e delle morti nelle RSA ha messo in moto anche alcune Procure che hanno aperto fascicoli, sequestrato cartelle cliniche, programmato audizioni del personale e dirigenti, ascoltato i familiari delle vittime. Sì queste persone non sono morte solo di malattia, reclamano e meritano giustizia perché sono vittime di un sistema sanitario impreparato e inadeguato che le ha considerate “sacrificabili” in virtù di un criterio che misura e valuta le priorità di assistenza e cura, lasciando morire le persone fragili. Eppure dovrebbero essere i diritti umani a guidare le decisioni in materia di salute anche in caso di emergenza e crisi sanitarie e forse, se si fossero osservati gli obiettivi del cosiddetto “Piano Pandemico” del 2008 (Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale), completamente ignorato, si sarebbero contenuti i danni.
Siamo ancora in fase di emergenza e molte persone anziane e con disabilità continuano a rimanere nelle strutture residenziali, confinate nel perimetro della loro camera, sperando di sopravvivere e di ritrovare i familiari e le persone amiche. In futuro andrà ripensato questo modello di assistenza, perché è sotto gli occhi di tutti il suo fallimento.