L’8 aprile scorso è stato licenziato dal Comitato Nazionale per la Bioetica e pubblicato il 15 aprile nel sito web del Comitato stesso, il Documento Covid-19: la decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del “triage in emergenza pandemica” [se ne legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
Partendo dalla Costituzione Italiana, e in particolare dall’articolo 32 («La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività…»), dall’articolo 2 («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale») e dall’articolo 3 (« Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»), oltreché riferendosi alla Legge 833 del 1978, (Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale), la quale ha prescritto che la cura vada garantita secondo i principi universalità, eguaglianza ed equità, e tenendo conto, infine, delle difficili scelte che i medici sono costretti a fare in questo periodo di grave crisi sanitaria, nel documento viene affrontato il problema di quali siano i criteri, eticamente corretti, di accesso alle cure da parte dei pazienti, quando ci si trova in condizioni di limitate risorse sanitarie.
A tal proposito, per offrire a tutte le persone eguali opportunità di raggiungere il massimo potenziale di salute, il Comitato suggerisce di assumere come punto di partenza principi quali «la protezione della vita e della salute, la libertà, la responsabilità, la giustizia, l’equità, la solidarietà, la trasparenza», assumendo il valore della persona umana in senso assoluto e quindi non riducendola alla logica della “società dello scarto”, che esclude tutti quelli che sono considerati inutili perché non aderenti a standard di salute e qualità della vita sclerotici e pregiudizievoli.
Scegliendo il criterio clinico come unico punto di riferimento per l’allocazione delle risorse, nel documento viene sottolineato che «ogni altro criterio di selezione, quale ad esempio l’età anagrafica, il sesso, la condizione e il ruolo sociale, l’appartenenza etnica, la disabilità, la responsabilità rispetto a comportamenti che hanno indotto la patologia, i costi, è ritenuto dal Comitato eticamente inaccettabile»; in altre parole, il trattamento sanitario non può essere negato sulla base dell’appartenenza a categorie stabilite aprioristicamente, ma la selezione dei pazienti deve avvenire in base alla necessità clinica e al trattamento efficace. Quindi l’allocazione delle risorse sanitarie è eticamente giustificata solo quando si basa sui «principi di giustizia, beneficienza ed equità, per offrire a tutte le persone eguali opportunità di raggiungere il massimo potenziale di salute consentito». Le procedure devono essere trasparenti e rispettare la dignità umana e nello stesso tempo le strategie messe in atto – anche quelle economiche ed organizzative – devono garantire l’universalità delle cure. In sostanza, il documento ribadisce, se necessario, che «il godimento del più alto standard possibile di salute è uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano, senza distinzioni di razza, religione, credo politico, condizione economica e sociale» (riferimento alla Dichiarazione Universale sulla Bioetica e i Diritti Umani, Unesco, 2005), che nella situazione che stiamo oggi vivendo vuol dire accesso alla massima assistenza sanitaria.
E ancora, il Comitato propone, in questa crisi caratterizzata da limitate e/o insufficienti risorse sanitarie, di sospendere il triage consueto e di adottare quello in emergenza pandemica, approccio comunitario che poggia sulla cosiddetta preparedness, cioè sulla programmazione operativa a lungo termine, per poter far fronte in modo efficiente alle emergenze, oltreché sull’appropriatezza clinica, cioè sul trattamento proporzionato al bisogno clinico del singolo paziente, e sull’attualità, ovvero sull’inserimento della valutazione individuale del paziente nella prospettiva più ampia della comunità dei pazienti. «Utilizzare il triage in emergenza pandemica anche a questo livello logistico – si legge – significa programmare su ampia scala, tenendo sempre presente l’obiettivo di evitare la formazione di categorie di persone che poi risultino svantaggiate e discriminate».
A questo punto è necessario precisare che il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica non è stato approvato all’unanimità dai componenti del Comitato stesso. Infatti, il professor Maurizio Mori ha tenuto a specificare che non concorda con quanto viene riportato nel testo, perché trova inadeguato il Parere del Comitato sul problema del triage o scelta dei pazienti da sottoporre a trattamenti intensivi. La sua posizione è che «il Parere del Comitato promette di dare un criterio per il triage in situazione di emergenza pandemica, ma in realtà non dà alcuna indicazione specifica se non che quando non si riesce a garantire l’universalità delle cure è il medico che deve scegliere in scienza e coscienza mixando gli indicatori clinici a propria discrezione».
Sempre secondo Mori, sarebbe stato importante che il Comitato avesse inserito una riflessione od osservazione sul documento Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili, prodotto dalla SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva) e contenente a suo dire una serie di raccomandazioni valide, perché l’analisi teorica ad esse sottese è corretta. In particolare Mori si riferisce alla terza raccomandazione, nella quale è chiaramente riportato che «può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in TI [Terapia Intensiva, N.d.R.]. Non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone». Pertanto vi si avvalora l’idea, secondo il principio utilitaristico di massimizzazione dei risultati, che l’accesso alle cure intensive debba essere garantito a quei pazienti che hanno maggiore possibilità di successo terapeutico e non a quelli che hanno probabilità significativamente maggiore di morire.
Quindi, sia il professor Mori che la SIAARTI sembrano suggerire che nei criteri di allocazione delle risorse debbano essere comprese l’età e lo stato di salute generale del paziente, sottendendo, in quest’ultimo caso, anche alla condizione di disabilità.
In sostanza, bisogna relegare ogni individuo che presenta una limitazione funzionale in fondo alla lista e curarlo solo se c’è eccedenza di risorse. Un’idea che ricompare, con linguaggio e modalità diverse, nella storia dell’umanità ogni volta che si presenta all’orizzonte una crisi, economica o sanitaria come quella attuale. Un’idea che dimentica come, in ogni circostanza, vada «promosso il rispetto per la dignità umana e la protezione dei diritti umani, assicurando il rispetto per la vita degli esseri umani, e le libertà fondamentali, basandosi sulla legislazione internazionale sui diritti umani» (Dichiarazione Universale sulla Bioetica e i Diritti Umani, Unesco, 2005, cit.) e che quindi ogni valutazione bioetica debba necessariamente «essere effettuata nel contesto del rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti umani» (Nota 1 in calce).
È assolutamente vero, come afferma il professor Mori, che il Comitato Nazionale per la Bioetica si astenga, nel proprio documento, dall’intervenire in modo esplicito nel dibattito innescato dalle Raccomandazioni della SIAARTI, ma voglio pensare che questo atteggiamento sia stato determinato dalla situazione di urgenza e dalla consapevolezza che il riconoscimento di criteri extraclinici per l’ammissione o meno ai trattamenti sanitari avrebbe dato vita a forti discriminazioni e violazione dei diritti umani di tutte quelle persone che lo stesso Comitato definisce come «più vulnerabili». E voglio pure credere che tale posizione sia stata presa anche per rafforzare quanto affermato dall’articolo 3 della Convenzione sui Diritti dell’Uomo e la Biomedicina (Strasburgo, Consiglio d’Europa, 1996), nota come “Convenzione di Oviedo”, che sancisce un equo e appropriato accesso alle cure per tutti e che le decisioni e le pratiche mediche, nel contesto della crisi attuale, si devono basare sul rispetto della dignità umana e dei diritti umani.
Sempre nel documento del Comitato per la Bioetica, tra le ulteriori riflessioni, al punto 3 viene richiamata l’attenzione su una questione ritenuta di estrema importanza, vale a dire quella concernente «le persone più vulnerabili rispetto al resto della popolazione, che possono sentirsi particolarmente a rischio di abbandono», invitando ad essere loro vicini e ad accompagnarle sia sul piano clinico che sul piano sociale e umano. È una questione condivisa anche dal Comitato di Bioetica del Consiglio d’Europa, ove ha sostenuto, pochi giorni fa, che «access to health care, in particular in a context of scarce resources, should be equal and guided by medical criteria, to ensure that the most vulnerable people, such as persons with disabilities, older persons, refugees and migrants, are not victims of discrimination» (“l’accesso all’assistenza sanitaria, in particolare in un contesto di scarse risorse, dovrebbe essere uguale e guidato da criteri medici, per garantire che le persone più vulnerabili, come quelle con disabilità, le persone anziane, i rifugiati e i migranti, non siano vittime di discriminazione”).
Pertanto, l’impostazione del documento del Comitato Nazionale per la Bioetica è pienamente condivisibile e in linea con l’orientamento bioetico degli altri organismi internazionali.
Purtuttavia, e con molto rammarico, non posso esimermi dal notare come – anche in questo momento storico così delicato per tutte le persone, ma in particolare per quelle che vivono una condizione di disabilità (bambini, giovani, adulti e anziani) – il Comitato abbia perso l’occasione di trattare il tema della disabilità e le implicazioni che essa determina in relazione all’accesso alle cure, al triage, all’allocazione delle risorse, alla scelta consapevole ecc. in àmbito sanitario. Se infatti escludiamo il Documento Bioetica e Riabilitazione, licenziato nel 2006, il Comitato non ha ancora rivolto la sua attenzione alle questioni bioetiche inerenti la disabilità.
Eppure l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) stima che il 46% della popolazione mondiale con più di 60 anni viva in condizione di disabilità e, pertanto, sia più soggetta a condizioni di povertà e di segregazione.
Le persone con disabilità, notoriamente più esposte a una salute precaria, nell’attuale contesto pandemico sono maggiormente a rischio di contagio, a gravi complicanze e a pericolo di morte ma, nello stesso tempo, sono anche i soggetti che incontrano maggiori ostacoli nell’accesso alle misure di prevenzione e di cura: «In the context of limited resources, rationing and treatment decisions may negatively affect persons with disabilities» (“In un contesto di risorse limitate, le decisioni sul razionamento delle risorse stesse e dei trattamenti possono ripercuotersi negativamente sulle persone con disabilità”) (COVID-19 response: Considerations for Children and Adults with Disabilities, UNICEF, 8 aprile 2020).
Partendo da tali premesse, un intervento esplicito e approfondito da parte del Comitato sulle questioni bioetiche intersecate alla condizione di disabilità avrebbe sicuramente contribuito a ribadire che la crisi Covid-19 non può essere risolta solo attraverso misure di salute pubblica e di emergenza (come suggerito da un gruppo di esperti dell’ONU il 26 marzo scorso), ma che ogni decisione presa dagli attori sanitari deve essere guidata dalle norme sui diritti umani e sulla non discriminazione.
Mi sarei aspettata che nel suo documento il Comitato chiarisse che i giudizi stereotipati sulla qualità della vita non hanno nessuna rilevanza sulle decisioni e che nessuno deve essere escluso dal trattamento a causa della sua condizione di disabilità.
Viceversa il documento Covid-19: la decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del triage in emergenza pandemica non fa alcun riferimento alla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, emanata nel 2006 dalle Nazioni Unite, com’è ben noto, e ratificata dal Parlamento Italiano con la Legge 18/09. Eppure la Convenzione contiene tutti i princìpi umani fondamentali che sarebbero stati utili al Comitato per evidenziare che le decisioni e le pratiche mediche riguardanti le persone con disabilità, nel contesto della crisi attuale, si devono basare sempre e comunque sul rispetto della dignità umana e dei diritti umani.
All’articolo 1 (Scopo), si precisa infatti che «scopo della presente Convenzione è promuovere, proteggere e assicurare il pieno ed eguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro inerente dignità».
All’articolo 5 (Uguaglianza e non discriminazione), si ribadisce poi che «gli Stati Parti riconoscono che tutte le persone sono uguali di fronte e secondo la legge ed hanno diritto, senza alcuna discriminazione, a uguale protezione e uguale beneficio della legge», mentre l’articolo 10 (Diritto alla vita) sancisce che «il diritto alla vita è inerente ad ogni essere umano e prenderanno tutte le misure necessarie ad assicurare l’effettivo godimento di tale diritto da parte delle persone con disabilità su base di eguaglianza con gli altri» e l’articolo 11 (Situazioni di rischio ed emergenze umanitarie) invita gli Stati a prendere «in conformità con i loro obblighi derivanti dal diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e le norme internazionali sui diritti umani, tutte le misure necessarie per assicurare la protezione e la sicurezza delle persone con disabilità in situazioni di rischio, includendo i conflitti armati, le crisi umanitarie e le catastrofi naturali».
E infine l’articolo 25 (Salute) precisa che «le persone con disabilità hanno il diritto di godere del più alto standard conseguibile di salute, senza discriminazioni sulla base della disabilità». Perché bisogna «richiedere ai professionisti sanitari di fornire alle persone con disabilità cure della medesima qualità rispetto a quelle fornite ad altri, anche sulla base del consenso libero e informato della persona con disabilità interessata, aumentando, tra l’altro, la conoscenza dei diritti umani, della dignità, dell’autonomia e dei bisogni delle persone con disabilità attraverso la formazione e la promulgazione di standard etici per l’assistenza sanitaria pubblica e privata».
Nota 1
La citazione è riferita alla Risposta alla richiesta di parere urgente su aspetti etici legati all’uso della ventilazione assistita in pazienti di ogni età con gravi disabilità in relazione alla pandemia da Covid-19 (disponibile integralmente a questo link), prodotta il 16 marzo scorso dal Comitato Sammarinese di Bioetica [se ne legga già ampiamente anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
Il Comitato Sammarinese di Bioetica ha mostrato costante attenzione alla questione della disabilità, tanto da aver già licenziato tre diversi documenti di estrema rilevanza, quali L’approccio bioetico alle persone con disabilità (25 febbraio 2013), Bioetica delle catastrofi (10 luglio 2017) e La persona malata nel momento della fine della vita (marzo 2019), che hanno contribuito non poco al dibattito internazionale.
Anche in questa occasione di altissima criticità e di scelte difficili e laceranti per il personale sanitario, il Comitato Sammarinese si è chiaramente espresso, sostenendo che «anche la riflessione bioetica sulle persone con disabilità non può che rispettare i principi enunciati nelle Carte bioetiche internazionali e nello specifico, nella Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite».