Leggo indignandomi quanto scritto da Salvatore Nocera in «Superando.it», nell’Opinione intitolata Riflessioni sulla valutazione degli alunni con e senza disabilità: «Si tratta di una questione sulla quale chi scrive ha già avuto modo di esprimersi più volte, denunciando da una parte la scorrettezza di quelle famiglie, dall’altra la dubbia deontologia professionale dei colleghi avvocati che le assecondano. Ora, dunque, con l’ammissione automatica agli esami di tutti, potrà succedere che quelle famiglie, approfittando anche del clima emergenziale, possano pretendere il diploma, ricorrendo al TAR in caso di rilascio del semplice attestato. Tali famiglie – assai poche invero, ma purtroppo ci sono state – sono scorrette innanzitutto nei confronti dei propri figli, poiché li sottopongono a una forte tensione emotiva, mentre i pochissimi colleghi avvocati, a mio avviso, mancano, come detto, di deontologia professionale, poiché assecondano i clienti sapendo trattarsi non della tutela di un diritto, ma di un semplice “capriccio” di illusorio prestigio che otterrebbero con il rilascio del diploma. Sono episodi che seppur rari, danneggiano la qualità dell’inclusione scolastica».
Da vittime, dunque, il dottor Nocera trasforma questi ragazzi in “persecutori”. Per l’ennesima volta, dimenticando la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, si continua a parlare in modo meschino di ragazzi disabili intelligenti e capaci e di ragazzi disabili “prepotenti e incapaci”, ai quali le famiglie, invece di lasciarli marcire in centri non inclusivi, con sforzi intellettivi ed economici, cercano di crear loro un futuro inclusivo e partecipante.
Non a caso in questi anni di battaglie al TAR il sottoscritto ha avuto come avversari anche una parte di persone aderenti alla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), che invece di stare dalla parte dei ragazzi con disabilità intellettiva grave stavano a fianco dei prèsidi, come esperti in materia, senza mai ricordarsi di ascoltare le famiglie che di fatto dovrebbero essere tutelate e non contestate dalle Associazioni. Premettendo che la maggior parte di queste cause le ho patrocinate io, e che anche con la mia partecipazione è stato presentato dalla dottoressa Marzia Panella e dalla dottoressa Anna Maria Cardona il primo progetto europeo (a detta dell’Università di Roma Tor Vergata) Io vado all’università, che coinvolgeva esclusivamente disabili gravissimi, mi chiedo chi abbia idea di questo progetto, e chi si sia mai interessato agli sforzi compiuti dalle famiglie, dagli assistenti per far apprendere questi ragazzi.
Si insiste che questi ragazzi sono sottoposti a pressione. Ma è proprio far vivere loro il presente, che è fatto di emozioni, paure e successi, che ci spinge a proseguire su questa strada. Non li abbiamo chiusi nelle aule di sostegno, ma li abbiamo messi nella mischia, solo con un assistente alla comunicazione, senza tutor o insegnanti di sostegno, a fargli vivere con la loro diversità il quotidiano.
Mi chiedo quindi perché sono “capriccioso” e “deontologicamente scorretto”. Solo perché credo che non esista un limite alla capacità di apprendere? O Solo perché chiedo agli insegnanti uno sforzo maggiore? Ma spesso non sono questi ragazzi a non saper apprendere la filosofia di Kant, spesso sono gli insegnanti che non hanno la capacità di farlo. Allora il mio sdegno cresce in modo esponenziale e mi chiedo: ma chi stiamo difendendo, gli incapaci ad insegnare ovvero i presunti incapaci ad apprendere?
Questi ragazzi e queste famiglie non hanno mai chiesto in regalo un diploma, ma hanno chiesto semplicemente che le scuole si impegnassero a fornire un metodo diverso per fare apprendere e per fare studiare i figli.
In base a questo, oggi almeno trenta miei ex clienti frequentano le università, facendo esami e partecipando alla vita sociale, portando dentro le strutture universitarie la loro diversità. Questi ragazzi, queste famiglie hanno vinto anche contro chi da dentro le Associazioni li contestava. Dov’erano le Associazioni quando iscrivevamo i nostri figli alle Università? Siamo stati lasciati da soli, stiamo vincendo e nonostante questo ora veniamo accusati di “scorrettezza”, ovvero di “capriccio”. Grazie, ma orgoglioso della disabilità di mia figlia, e orgoglioso del suo percorso, rimango offeso nel sentirmi definito come “scorretto” e “poco deontologico”, ma ribadisco che il sottoscritto è rimasto sempre a fianco dei propri clienti con disabilità e non a fianco dei prèsidi.
Noi siamo fieramente disabili gravissimi e orgogliosi della nostra diversità. È vero che apparentemente questi ragazzi non hanno le vostre “capacità”. È vero che spesso non vedono, non parlano, che hanno dolori sempre maggiori, che soffrono fisicamente, che hanno mobilità ridotta. Ma non hanno mai fatto finta (citando Gaber) di essere sani. Anzi hanno sempre messo in mostra quelli che per altri sono limiti, ma che per noi sono particolarità da evidenziare. Quindi, fieri della gravità estrema, senza chiedere pietismi e carità religiosa, pretendiamo, avendone il diritto, di esserci, di diplomarsi, di partecipare alla vita sociale, di iscriversi all’università, di studiare. In una parola sola si chiede di vivere.
Se questa mia diversità come padre qualcuno la giudica un “capriccio”, se qualcuno pretende che stante la disabilità di un familiare devo chiedere favori o pietà, ammetto con orgoglio che, anche a costo di apparire antipatico e capriccioso, continuerò per la strada giudiziaria.
Ma veniamo a quel che dice la famosa Ordinanza Ministeriale 90/01 [“Norme per lo svolgimento degli scrutini e degli esami nelle scuole statali e non statali di istruzione elementare, media e secondaria superiore”, N.d.R.], preliminarmente, però, bisognerebbe guardare alla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, per rileggere quell’Ordinanza in modo moderno, basandosi sui principi essenziali della Convenzione stessa. Soprattutto «riconoscendo che la disabilità è un concetto in evoluzione e che la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impedisce la loro piena ed efficace partecipazione nella società su una base di parità con gli altri».
Ora, detto questo, non si può accettare il distinguo relativo alla capacità oggettiva, ma si deve intendere “diversa capacità”, e soprattutto la scuola ha l’obbligo di proporre allo studente con disabilità un piano di studio reale e non confinarlo nelle numerose aule di sostegno che ancora oggi rappresentano la quotidianità per quasi il 40% dei disabili gravi.
Ma torniamo all’Ordinanza 90/01: la valutazione degli alunni riconosciuti in situazione di handicap viene operata, sulla base del Piano Educativo Individualizzato (PEI), mediante prove di esame, anche differenziate, corrispondenti agli insegnamenti impartiti e idonee a valutare il processo formativo dell’allievo in rapporto alle sue potenzialità e ai livelli di apprendimento e di autonomia iniziali. Pertanto non si può pretendere che il disabile grave guarisca, ma che, rimanendo fieramente grave o gravissimo, aumenti le proprie potenzialità.
Tale meccanismo comporta che proprio in base ad un’affermazione, che credo condivisa da tutti della Corte Costituzionale, non esiste il mondo della disabilità, ma esiste l’universo del disabile. Pertanto le griglie di valutazione e lo stesso apprendimento dovranno essere misurati in base alla gravità dell’alunno e non a parametri “normodotati”.
Ribadisco: il disabile ha diritto a rimanere disabile e non certo il diploma deve rappresentare un attestato di guarigione, ovvero – e questo è peggio – di normallizazione. Quindi, se i provvedimenti a favore della disabilità devono invece rappresentare uno strumento non inclusivo per i disabili “incapaci”, questo deve far riflettere sull’eventuale doppia discriminazione che i disabili plurimi ed intellettivi subiscono. La scuola deve diventare un volano dove gli ultimi sono spinti per il prosieguo e non una sorta di egoistica competizione, dove gli ultimi sono esclusi e isolati, per far emergere i primi, quelli “bravi”.
Per questo voglio ricordare un preside di religione ebraica di una scuola americana che ogni anno inviava ai suoi insegnanti una lettera, scrivendo: «Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti; bambini uccisi con veleno da medici ben formati; lattanti uccisi da infermiere provette; donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiore e università. Diffido – quindi – dall’educazione. La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani».
Questa è l’unica lettura, il resto è palese discriminazione. E comunque ribadisco: non per “capriccio”, ma per diritto, non per “scorrettezza”, ma per lealtà.
Alfonso Amoroso
Avvocato, genitore di una persona con grave disabilità
Risponde Salvatore Nocera.
Egregio avvocato Amoroso, premetto che questo mio intervento è a titolo personale, non intendendo coinvolgere nelle mie opinioni le organizzazioni di cui sono dirigente e consulente nazionale.
Lei sostiene che gli alunni con disabilità intellettive gravi abbiano comunque un diritto pieno e incondizionato a ricevere il diploma di maturità e, a sostegno di questa sua tesi, cita l’articolo 15 dell’Ordinanza Ministeriale 90/01 nonché stralci della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’Italia con la Legge 18/09, oltre a fare riferimento al Decreto Legislativo 297/94 (Testo Unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado).
Invero le norme dell’Ordinanza e del Testo Unico citate vanno distinte tra quelle concernenti la valutazione nella scuola media e la valutazione nella scuola superiore. Infatti, l’articolo 16 della Legge 104/92, recepita appunto nell’articolo 318 del Testo Unico, norma fondamentale sulla valutazione degli alunni con disabilità, stabilisce, al primo comma, che la valutazione sugli apprendimenti vada effettuata sulla base del Piano Educativo Individualizzato (PEI) dei singoli alunni, che può prevedere, nelle scuole di ogni ordine e grado, la riduzione o la sostituzione di taluni contenuti disciplinari; il comma 2 concerne esclusivamente la scuola dell’obbligo (che a quell’epoca si concludeva con la terza media); in quest’ultimo è detto che il PEI deve essere formulato esclusivamente con riguardo alle effettive capacità dell’alunno e valutato sulla base dei progressi rispetto ai livelli iniziali degli apprendimenti. Conseguentemente, tutti gli operatori del diritto hanno sempre ritenuto che, se l’alunno ha raggiunto gli obiettivi del proprio PEI, ha diritto al diploma di licenza media, qualunque fosse il contenuto del suo PEI.
Il comma 3, però, stabilisce per la scuola superiore che in essa siano consentiti tempi più lunghi, prove equipollenti e l’uso di mezzi tecnologici, senza fare riferimento al diritto dell’alunno ad avere la valutazione sulla base di un PEI formulato esclusivamente con riferimento alle sue effettive capacità, come stabilito nel comma precedente per la scuola elementare e media. E non sarebbe stato ovviamente possibile, dal momento che il nostro ordinamento giuridico è fondato sul valore legale del titolo di studio quale quello di maturità, che per essere tale deve necessariamente essere conseguente alla valutazione di apprendimenti riconducibili, almeno a livello di obiettivi minimi, dei programmi ministeriali, pena la qualificazione di un falso in atto pubblico.
E veniamo ora all’interpretazione delle norme della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. In essa non risulta assolutamente che tutti gli alunni con disabilità abbiano diritto incondizionatamente al diploma conclusivo degli studi superiori. In essa si formulano princìpi riguardanti i fondamentali diritti umani sull’eguaglianza, la non discriminazione, l’inclusione scolastica e sociale e la tutela della dignità di Persone umane. Non risulta invece assolutamente che il mancato rilascio del diploma di maturità sia una discriminazione. La Convenzione stessa, infatti, obbliga gli Stati firmatari a garantire le pari opportunità agli alunni con e senza disabilità. Ora, nel nostro attuale sistema giuridico, che, come detto, riconosce valore legale ai titoli di studio, non è assolutamente garantito il rilascio del diploma di maturità a tutti gli alunni senza disabilità, ma solo a quelli che raggiungono una valutazione di sufficienza secondo i programmi ministeriali.
Se pari opportunità hanno da esserci tra alunni con e senza disabilità, la doppia possibilità deve essere prevista anche nel nostro sistema scolastico. E infatti tutta la nostra giurisprudenza costituzionale è orientata nel senso che tali alunni abbiano il diritto costituzionalmente garantito «allo studio», ma non necessariamente «al titolo di studio».
Tale formula si trova esplicitata ad esempio nel Parere del Consiglio di Stato n. 348 del 1991, posto a base poi della normativa ministeriale sulla valutazione degli alunni, specie proprio dell’Ordinanza Ministeriale 90/01, che ha introdotto esattamente nell’articolo 15 per le scuole superiori la distinzione tra “PEI per obiettivi minimi”, il cui raggiungimento dà diritto al diploma di maturità e “PEI differenziato”, cioè differente dai programmi ministeriali, che dà invece diritto a un attestato.
Lei sostiene che dopo la ratifica da parte dell’Italia della Convenzione ONU, tale distinzione andrebbe abolita, per far luogo a una norma che garantisse il diploma di maturità, con conseguente diritto di iscrizione all’università per tutti gli alunni con disabilità anche gravi e gravissime, proprio per rispetto alla loro dignità e al diritto alla non discriminazione. Invero non mi risulta che nell’annuale relazione governativa in risposta alle Osservazioni del Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, in riferimento al mancato rispetto della Convenzione da parte dei Paesi firmatari, sia mai comparsa la denuncia della mancata approvazione di una norma che elimini la discriminazione legata al rilascio o meno del diploma di maturità agli studenti con disabilità; né risulta che il nostro Stato sia stato censurato per non avere abrogato la normativa sul valore legale dei titoli di studio, dal quale discende logicamente e giuridicamente l’impossibilità di concedere il diploma di maturità a tutti gli alunni con o senza disabilità, anche se non hanno raggiunto la conoscenza di apprendimenti minimi secondo i programmi ministeriali, anche se si avvalgono dei diritti garantiti dal terzo comma dell’articolo 16 della Legge 104/92.
Di ciò sono convinto non solo io, ma anche gli esperti che hanno partecipato a New York alla formulazione del testo della Convenzione ONU. Pertanto, sino a quando sussisterà nel nostro ordinamento il principio del valore legale dei titoli di studio, è priva di fondamento giuridico ogni pretesa dell’obbligo di adeguare alla Convenzione ONU la nostra normativa sulla valutazione. I colleghi avvocati che ritengono di avanzare questa richiesta sono liberi di farlo, però questa è materia de jure condendo [di diritto costituendo, N.d.R.], mentre noi dobbiamo stare allo jure condito [diritto costituito, N.d.R.] che, per i non addetti ai lavori è il diritto attualmente vigente.
In uno Stato democratico lei e altri colleghi siete liberi di sostenere tutte le opinioni e le strategie processuali prescelte, ma in uno Stato democratico anch’io ho il diritto di esprimere i miei pareri di carattere generale su comportamenti che ritengo non corretti, anche se legittimi, sotto il profilo legale e deontologico.
I giuristi di epoche passate ci hanno tramandato la massima Non omne quod licet honestum est, ovvero, per i non addetti ai lavori, «non sempre ciò che è legittimo è pure corretto sotto il profilo dell’etica».
Per il mio parere, vengo da lei accusato di trasformare gli alunni con disabilità «da vittime in persecutori» e avrei vilipeso le famiglie che, pur di ottenere il diploma di maturità, accettano pratiche giudiziali non corrette, anche se legittime. Io invero ho lamentato che questi alunni con disabilità vengono costretti da talune famiglie a sacrifici e sofferenze psicologiche, dovendo studiare livelli disciplinari superiori alle loro capacità, mentre potrebbero con molta maggiore soddisfazione svolgere un PEI differenziato e/o dedicarsi ad altre attività più soddisfacenti, nelle quali sono molto più abili, non solo per natura, ma anche per capacità apprenditive.
Anch’io ho denunciato e denuncio il comportamento scorretto di docenti che non si impegnano a sviluppare tutte le potenzialità presenti in ogni alunno con disabilità. Anch’io ho lamentato e lamento la mancata formazione iniziale e obbligatoria in servizio dei dirigenti scolastici e dei docenti curricolari sulle didattiche inclusive, che garantirebbero ai nostri alunni con disabilità il pieno esercizio del diritto allo studio e, quando se ne dimostrino le condizioni, così come per gli alunni senza disabilità, il diritto al diploma di scuola superiore, evitando lo sconcio delle “aule di sostegno” o l’abbandono in fondo alla classe o la promozione al solo scopo di mandarli via. Ma de hoc satis [è sufficiente così].
In ogni processo giudiziale si scontrano due opposte opinioni, quella di chi pretende un diritto e quella di chi lo nega. Poi è il giudice a decidere. In questo nostro pubblico dibattito, sarà l’opinione pubblica dei Lettori a decidere.
Salvatore Nocera