Sono un realista fiducioso. E sono una persona che crede nella tecnologia, perché ci vivo immerso da più di trent’anni. Stiamo per affrontare il futuro più lontano da quelli che ci eravamo immaginati e se prima potevamo permetterci di trasferirci in un futuro vissuto prevalentemente da casa, ora possiamo continuare a farlo. Ma dobbiamo accompagnare la migrazione rifondandola sui valori umani. Ce lo insegnano le tante persone con disabilità che stanno subendo la didattica a distanza restandone escluse.
Riporto l’esperienza di un’amica insegnante di sostegno. Abita nell’Italia centrale e ha a che fare con molti bambini. Qualcuno si innamora, anche in videoconferenza, perché l’amore si beffa delle barriere. Ma qualcuno soffre. Uno in particolare. È un bambino con problemi di adattamento. Non riesce a relazionarsi bene col mondo e spesso esplode in comportamenti ribelli. Si agita, protesta e trova sollievo nel calore umano. Di presenza la mia amica riesce a correggerlo, proprio grazie al rapporto umano. A distanza la manda schiettamente a quel paese.
La sua è una famiglia disagiata. Non ci sono molti soldi e non voglio parlare di livello culturale dei componenti. Anche fosse altissimo, non garantirebbe la presenza di quel fattore emotivo indispensabile a restare inclusi nel tessuto sociale. Va detto, però, che la famiglia non sembra tagliata per sopperire alle difficoltà del piccolo. Non c’è un buon rapporto con il bambino, che viene rimproverato senza essere sufficientemente ascoltato. La lezione al computer, perciò, diventa un tormento: da una parte l’insegnante che cerca di infondere un benessere difficile da trasmettere senza contatto e dall’altra un contatto stretto con una famiglia che non valorizza il bambino.
Inoltre, in una società dove tutti hanno lo smartphone figo, lui ne è privo. Nell’epoca previrus poteva essere un bene che non l’avesse, dato che alla sua tenera età il confronto con l’ambiente dovrebbe avvenire con altre vie che non quelle strettamente tecnologiche. In questa realtà, invece, diventa un limite, uno dei tanti imprevisti da “società del virus”. Ma va bene così se in famiglia ce ne fosse uno utilizzabile. Non c’è e non c’è neppure il computer. Non ci sono abbastanza soldi. Ora sono arrivati, grazie al Ministero, ma il computer in una famiglia tecnologicamente analfabeta serve a poco.
In qualche modo si adattano e le lezioni si svolgono, ma il livello è basso. L’insegnante mi racconta che la didattica in senso stretto non esiste. Durante le lezioni in comune con la classe i bambini divagano. Si tenta una sorta di “semipedagogia”, cioè la trasmissione di atteggiamenti e idee utili, ma povere delle nozioni pretese dal programma scolastico. I piccoli sono portati a distrarsi. Lo farebbero in classe, in un secolo dove la concentrazione è un’opzione non contemplata dal collettivo, immaginiamo quanto sia facile distrarsi da casa.
Il lavoro degli insegnanti diventa molto impegnativo e il piccolo della nostra storia si trova sempre più sperduto nel suo isolamento informatico. E non è facile neppure per i genitori, non solo i suoi. La mia amica mi racconta che la chiamano anche fuori orario. Lei ce la mette tutta, ma anche lei ha una famiglia cui provvedere. Ci sono madri, poi, che si intromettano durante la lezione.
Neppure lei, inoltre, se la passa tanto bene con il mezzo informatico. Non è abituata a essere immersa nelle videoconferenze. È tipo da rapporto diretto, il mezzo tecnologico diventa una barriera, un ostacolo cui ci si adatta, pur con fatica, ma che non le offre le stesse opportunità offerte dal rapporto dal vivo.
È perplessa anche sugli OEPA, ovvero gli operatori educativo-culturali che, come avviene a scuola, supportano gli studenti con disabilità. Si chiede se l’intervento di cui si sta parlando in questi giorni sarà a domicilio oppure digitale. Se fosse di questo tipo, lei non sarebbe d’accordo perché il rapporto umano che questi operatori possono offrire pensa che non possa essere trasmesso a distanza.
Cerchiamo di tirare le fila di questo discorso. Non faccio il nome della mia amica per proteggere il bambino e mi soffermo sul principale concetto che affiora dal nostro dialogo: l’aspetto umano. Ci sono persone che riescono a trasmetterlo a distanza e ci sono famiglie che riescono a recepirlo. Ma non sempre tutto fila liscio. Il suo è uno di quei casi.
Ci sono mancanze da parte delle famiglie e ci sono insufficienze da parte degli insegnanti. L’amore non si compra e l’attitudine a prendersi cura delle persone in difficoltà non tutti l’acquisiscono compiutamente. La didattica a distanza, quindi, diventa un limite. Anche in chiave ICF, la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, documento principe nella considerazione della disabilità, è concepito che ci siano facilitatori e barriere nella vita di tutti i giorni. E ciò che sembra facilitatore per uno può essere una barriera per altri. Un ascensore utile a chi si muove in carrozzina è un incubo per chi è claustrofobico.
La tecnologia è un facilitatore, indubbiamente, ma esiste il ragionevole dubbio che non lo sia per chi non può accedervi o non lo possa fare con disinvoltura. Sicuramente un domani sarà così raffinata da poter trasmettere sempre umanità a distanza. Ora non ci riesce.
La didattica a distanza ha i suoi limiti, lo dice uno che da sempre supporta l’inevitabilità dell’uso della tecnologia nella disabilità, e nella società intera. Non raccontiamo frottole dicendo che la didattica a distanza sta funzionando. Funziona a singhiozzo, invece. Questo periodo ci serva da laboratorio verso una vera didattica a distanza. Ma una didattica che, a partire da subito, deve essere affiancata da soggetti in grado di fornire umanità concreta a domicilio. La tecnologia da sola oggi per molti è solo un pannicello caldo. Per alcuni un “pannicello acido”.