Della didattica a distanza, dell’insegnamento di sostegno e altro ancora

di Giovanni Maffullo*
«Tenuto conto che la frequenza delle scuole non è possibile per la pandemia - scrive Giovanni Maffullo - di fatto, a fronte della voragine creatasi, come insegnante specializzato non posso fare altro che cercare di costruire un ponte con l’alunno disabile, consapevole che si tratta, pur sempre, di un surrogato. Al di là e oltre la pandemia, però, se si vuole veramente e in termini socio-politici un concreto rilancio della qualità del servizio scolastico, occorre investire denari sia nella formazione delle persone che operano nella scuola, sia facendo precise scelte di campo»

Aula di scuolaHo letto con attenzione e piacere gli articoli recentemente pubblicati da «Superando.it», connessi sia alla valutazione degli alunni con disabilità sia al cosiddetto “insegnante di sostegno”.
Ho trovato molto interessanti gli articoli dei genitori Anna Rita Casolini di Sersale (La mia “proposta indecente” per valutare gli alunni con disabilità cognitiva) e Ida Palange (La necessità di rafforzare il patto educativo scuola-famiglia), un po’ meno quanto emerge, tra le righe, da Il sostegno va garantito anche al tempo del coronavirus.

Casolini sostiene una proposta “indecente”, ma accattivante, laddove afferma che si può prevedere un recupero “debiti” anche con l’azione mediata dagli insegnanti di sostegno: personalmente sono anni che propongo sportelli ad personam di recupero e sostegno specifici, da attuarsi durante l’anno e al termine dell’anno scolastico stesso, oltreché all’inizio di quello successivo, per quegli studenti che, alle superiori, hanno bisogni non solo didattico-disciplinari, ma anche nell’area dell’autonomia sociale e personale.
Al contempo credo in ciò che sostiene Ida Palange, laddove fa emergere la necessità di un nuovo patto scuola-famiglia, utile anche per affrontare l’annosa questione del PEI (Piano Educativo Individualizzato) alla scuola secondaria di secondo grado, “differenziato” o “equipollente per obiettivi minimi”. A tal proposito avevo già in passato fatto la proposta “legittima” di considerare il biennio delle superiori come il naturale prosieguo della scuola dell’obbligo e quindi di considerare, alla stregua del primo ciclo e in sintonia con la Legge 104/92, i progressi effettuati dallo studente con disabilità. Nel corso del biennio, durante il quale si attuerebbe sempre un PEI equipollente – così come si fa sino alla terza media -, si avrebbe il tempo per creare quell’utile alleanza educativa fra scuola e famiglia necessaria per capire il da farsi a lungo termine; necessaria, inoltre, per garantire la formazione a tutto tondo della giovane persona con disabilità. Quindi, nel corso dei primi due anni delle superiori, le due Istituzioni – Scuola e Famiglia – non più in apprensione per il programma in senso stretto da realizzare, potrebbero concorrere insieme a pianificare, con l’eventuale collaborazione dei servizi territoriali sanitari e sociali, un progetto di vita-PdV-al servizio della crescita dello studente con disabilità. In altri termini, in sede di GLO (Gruppo di Lavoro Operativo), stemperata l’ansia da prestazione, si potrebbe finalmente parlare della persona con disabilità nella sua globalità e non solo dell’alunno con disabilità cioè della mera didattica e delle sole capacità cognitivo-apprendimentali (che fanno decidere se optare per un “PEI differenziato”). Al contempo si potrebbe, a fine biennio, elaborare una certificazione di competenze agganciate al reale funzionamento dello studente nelle varie aree (cognitivo-apprendimentale, autonomia sociale e personale, socio-relazionale), quindi giungere a 16-17 anni a un congruo e ponderato orientamento scolastico e professionale coerente con le potenzialità presenti.
In altri termini, grazie a un sereno e concreto confronto alla pari, da attuarsi intorno a un tavolo di lavoro, si analizzerebbero anche i limiti che potrebbero diventare barriere lungo l’itinerario formativo che dovrebbe portare alla conquista del proprio progetto di vita, condiviso in primis tra famiglia e scuola (avevo già sostenuto, anche su queste stesse pagine, la necessità di avere un biennio di “decantazione”. Infatti, lavorando sui potenziali inespressi dello studente con disabilità e operando a livello di zone di sviluppo prossimale, si potrebbero capire meglio inclinazioni, attitudini e soprattutto desideri, affinché questi ultimi venissero agganciati pragmaticamente alla realtà del contesto sociale e territoriale in cui ci si trova ad operare).
All’inizio del triennio, poi, dopo avere osservato e valutato la situazione globale – stante il valore legale del titolo di studio -, si deciderebbe con “calma” quale futuro si potrebbe mettere in cantiere, indi pensare all’itinerario da seguire affiancandosi alla persona con disabilità, per consentirle di realizzare il suo pieno sviluppo, garantendo, nel corso dei tre anni, sia un benessere psicofisico sia una crescita in termini socio-relazionali e di autonomia autoregolativa.

E vengo all’appunto che mi sento di sollevare per l’articolo in cui si afferma che il sostegno va comunque garantito.
Ivi è necessaria però qualche riflessione e considerazione che voglio condividere dalle colonne di questa valida rivista telematica.
È pur vero che “dall’alto” – leggasi sistema scolastico italiano -, non vi è stato un congruo supporto alla didattica a distanza per gli alunni con disabilità, nel senso che in molti casi non si è riusciti a fornire ausili utili a rendere efficace la comunicazione e il software didattici necessari a garantire la partecipazione ad esempio alle videolezioni. Ciononostante sono decisamente poco d’accordo nell’affermazione di Salvatore Nocera, allorquando sostiene che «nessuno dei docenti per il sostegno sta svolgendo tutte le ore assegnate agli alunni con disabilità» (è per altro doveroso che qui abbia a evidenziare che l’avvocato “Tillo” Nocera lo conosco e lo stimo innanzitutto come persona, oltre a considerarlo uno degli insigni baluardi dell’integrazione scolastica del nostro Paese).
Nei fatti, il dramma si consuma sulla pelle, come consuetudine in questo Paese, dei più deboli: alunni con disabilità in primis. Come? In che modo? Semplicemente come al solito, scaricando le “fatiche emotivo-relazionali” e tutto ciò che attiene “all’umano” in àmbito scolastico, sulle spalle del cosiddetto insegnante  di sostegno.
Credo sia ora di dire veramente basta! Per ciò che conosco io, e sono tante realtà della scuola secondaria di secondo grado, i docenti di sostegno sono coloro che più di tutti si sono dati da fare, in mille modi, con  qualsiasi supporto a distanza, facendo ricorso a ogni tipologia di device [“apparecchiatura”, N.d.R.] ovvero mettendosi in gioco a tutto tondo.
Cosa succede però praticamente ora che la didattica a distsanza è obbligatoria? I docenti curricolari, pur riducendo le ore scolastiche (ogni ora di videolezione corrisponde, sostiene l’Università di Firenze, ad almeno due ore di lezione in presenza) continuano a fare il loro lavoro, cioè la beneamata lezione frontale e a chiedere agli studenti, che sono online, se per tutti è chiara la spiegazione. Assegnano i compiti a distanza o le attività individualizzate e interrogano, spesso noncuranti dell’esigenza di mediare, facilitare e offrire una didattica innovativa a coloro che più ne hanno bisogno, disabili in primis (per didattica innovativa non si intende assolutamente la mera videolezione in live o in differita). Ed ecco, dunque, che appare l’“angelo salvifico”… l’insegnante specializzato tuttofare, che deve telefonare ai colleghi per sollecitarli di ricordarsi di condividere materiali ovvero di ricordarsi di invitare alla chat non solo gli studenti tutti, ma anche il povero collega di sostegno che costantemente chiede collaborazione anche spicciola, quale quella di essere aggiornato.
Purtroppo molto – direi troppo – in termini di aspettativa, si scarica addosso agli insegnanti di sostegno che ora, più spesso che in passato, viene “permesso” loro (mi ricorda il discorso del presidente del Consiglio Conte che in democrazia, esautorando il Parlamento, cioè il popolo, dice: “noi permettiamo, noi concediamo…”) da parte di alcuni docenti curricolari di registrare le lezioni. L’insegnante di sostegno, quindi, che non è e non dev’essere un tuttologo, dovrà poi risentire la lezione, fare gli schemi, la mappa concettuale, ripetere con lo studente disabile la lezione, prepararlo all’interrogazione, il tutto condito da un’immensa dose di pazienza, volta a contenere gli immancabili stati d’ansia, rassicurando e contenendo i vissuti psichici, con tutti i limiti del caso, in quanto è un lavoro comunque fatto a distanza.
È un lavoro improbo quello di garantire un pragmatico supporto relazionale ed emotivo a distanza (arriviamo al punto che i dirigenti hanno fatto riattivare gli sportelli di ascolto psicologico, ma si pensa veramente di garantire così, a distanza, online, un idoneo supporto psichico, senza avere in precedenza instaurato un idoneo rapporto relazionale? Forse i dirigenti scolastici vogliono, ancora una volta, ottemperare con atti pubblici alias circolari, solo formalmente, all’esigenza di rispondere a bisogni), ma l’insegnante specializzato, ben formato, può farlo, in quanto conosce la persona, è già entrato in empatia con il “suo” alunno che ascolta e di lui si fida oltre ad affidarsi (tale azione di supporto è ovvio che si affianca e rinforza l’azione di supporto e sostegno che la famiglia garantisce in modo costante e continuo quotidianamente).
La situazione non è solo emergenziale, ma oltremodo triste e assicuro tutti i Lettori che ogni insegnante specializzato, capace di fare il suo lavoro, da due mesi lavora almeno il doppio di quanto previsto dal Contratto Collettivo Nazionale, senza alcun riconoscimento, se non quello  di sentirsi a posto con la propria coscienza personale e il proprio senso di appartenenza civico ad un Paese che sta soffrendo.

Si dice che l’ottimo è nemico del bene e ciò che si riesce a fare, con una fatica enorme, è compensare le carenze connesse con il non essere fisicamente a scuola, ove ci si può avvalere del rapporto vis a vis e di tutta l’area della comunicazione non verbale che fa transitare messaggi di empatia, oltreché costruire quella necessaria reciproca fiducia relazionale supportata emotivamente.
Mia madre, più che ottuagenaria, mi ricorda una semplice cosa: come pensi di educare a distanza se si fa fatica a farlo allorquando operi in presenza? Ciò che lei afferma è frutto del buon senso pedagogico, ma a me pare di vivere in una situazione parossistica: si chiede sempre di più.
Mi sembra superfluo ricordare che nell’area della formazione degli studenti teenager, è di vitale importanza la presenza e la vicinanza in un medesimo luogo, inteso non solo come spazio di condivisione e socializzazione, ma soprattutto di partecipazione alla vita reale. Ciò premesso, tenuto conto che la frequenza delle scuole non è possibile per la pandemia dichiarata, di fatto, a fronte della voragine creatasi, come insegnante specializzato non posso fare altro che cercare di costruire un ponte con l’alunno disabile, consapevole che si tratta, pur sempre, di un surrogato. Certo, meglio che niente. Ciò che invece noto e osservo nei cittadini adulti, che si riverbera immancabilmente sui giovani, è una dilagante angoscia, un’apprensione dettata da vari motivi; quindi in tali condizioni psichiche come si pensa di sostenere persone, e i nostri studenti con disabilità sono tali, pensando che possano reagire dando il meglio di loro?
Occorre supportarli, prendersene cura – con tutte le limitazioni del caso -, anche a distanza e per me ciò è “normale”, ma non è semplice. Certo, ho saputo costruire un’interazione valida, umanamente ricca e ora, anche se  online, riesco ad espletare uno dei miei compiti che sento essenziale, garantire cioè la continuità emotivo-relazionale, oltre che didattico-educativa, ai “miei” studenti. Comunico loro la mia presenza, vicinanza e soprattutto li ascolto cercando di comprenderli. Altro che espletare il proprio lavoro nelle ore di servizio previste, si va ben oltre. Si fa più fatica, si investe il doppio del tempo e, inutile negarlo, si ottengono minori risultati.

La didattica a distanza non è scuola, con la didattica a distanza non posso espletare appieno la mia professionalità e ho reinterpretato il mio ruolo difficilissimo e complesso, oltre che splendido, in modo altro, ma nella logica della continuità educativa e formativa.
Francamente e personalmente ho ancora il piacere di “lanciarmi nella mischia”, di mettermi in gioco, ma il contesto non facilita, tutt’altro. Le barriere all’inclusione sono palesi e sono state più volte evidenziate, ma almeno, per favore, salvaguardiamo l’insegnante specializzato che, a mio modesto parere, è come se lavorasse in seno a una riserva indiana e rappresenta, laddove la sua conoscenza e competenza viene espressa appieno, un avamposto al servizio del processo di inclusione, sempre foriero di fatiche ma anche di soddisfazioni.

Mi duole leggere e capire che si esige sempre più dall’insegnante specializzato. Mi chiedo e inoltro tale quesito ai Lettori: ma non è il Ministero dell’Istruzione che deve, insieme a tutta la compagine governativa, fare una scelta veramente coraggiosa a favore dei futuri cittadini che usufruiscono del servizio erogato dall’Istituzione Scuola? È indifferibile formare sulla didattica innovativa il personale della scuola se si vuole pensare di ottenere un qualche risultato non solo tangibile nel “qui ed ora” (per ora delegato alla buona volontà dei docenti), ma un risultato che possa sedimentare ed essere foriero di un futuro migliore in seno alla nostra Nazione.
Un futuro in cui veramente ogni alunno possa esprimere le sue potenzialità al meglio e trovare quel contesto ambientale e socio-relazionale che faciliti il suo percorso di formazione e crescita umana.
Leit motiv ricorrente: non ci sono soldi per formare gli insegnanti. Assistiamo però al fatto che neo task force e comitati tecnici, pagati profumatamente dai cittadini, vengono creati quando, essendo la nostra una democrazia parlamentare, abbiamo specifiche Commissioni Parlamentari (ad esempio la VII Commissione Permanente di Camera e Senato) che già si dovrebbero occupare della scuola. La narrazione del pensiero imperante non mi convince più.
Basta chiacchiere, Carnevale è finito! Se si vuole veramente e in termini socio-politici un concreto rilancio della qualità del servizio scolastico, occorre investire denari sia nella formazione delle persone che operano nella scuola – differenziando carriere e valorizzando conoscenze e competenze acquisite nel tempo e sul campo -, sia facendo scelte di campo. Scegliere le priorità, in un Paese che si sta sempre più impoverendo e non solo sotto il profilo economico, ma soprattutto culturale, è di vitale importanza.
Questo è il nocciolo duro della nostra società italiana: avere, di fatto, poco alla volta indebolito l’Istituzione Scuola (oltre a rendere sempre più fragili le famiglie), che oggi viene vissuta dai cittadini e considerata dal capo del nostro Governo un mero servizio (ecco perché si dichiara che se gli adulti devono ritornare al lavoro ci deve essere qualcuno che tiene i bambini… la scuola.). Sì, è vero, la scuola è un ottimo contenitore, ma dovrebbe essere meglio rispettata in quanto istituzione depositaria di un diritto costituzionalmente garantito: il diritto allo studio.
È ora di dire basta a questa miserrima situazione e al ruolo secondario a cui è stata relegata la scuola: istruire e contenere. Ma quale formazione psicopedagogica il Ministero ha garantito ai docenti? Nulla, assolutamente niente. Zero. L’educazione, l’istruzione, l’empatia e la fascinazione sono importanti nel processo formativo di ogni nostro studente e dobbiamo chiedere ai nostri politici di fare scelte e di non demandare ad altri la loro personale responsabilità di dirigenti di un Paese (a mio avviso si ha la responsabilità non solo delle scelte che si fanno, ma anche delle scelte che si decide di non fare per non esporsi e per non avere consenso mediatico immediato).

Torno alla figura dell’insegnante di sostegno: non solo sono aumentate in modo esponenziale le ore di lavoro, ma in alcune situazioni si fatica, distanza, a preservare alcune competenze conquistate sul campo sino a sabato 22 febbraio. Come d’incanto, però, si vuole, sulle ali della contingenza emergenziale, far volare la scuola che non sarà più la stessa. Falso! Online la scuola è la brutta fotocopia di quella on-site ovvero prevalentemente trasmissiva (è successo la stessa cosa con l’introduzione delle LIM-Lavagne Interattive ;Multimediali nelle classi) e poco marginalmente inclusiva.
Talvolta le istanze burocratico-amministrative pretese in questi giorni da numerosi dirigenti scolastici, rischiano di trasmettere noncuranza nei confronti della professionalità docente (forse si sentono oberati dal carico della responsabilità dell’Istituzione che deve garantire il diritto allo studio e scaricano “a valle”?). Ecco che il dirigente scolastico, senza neppure pensare che dietro al ruolo del docente – che è importante interpretare dando valore aggiunto soggettivo – c’è una persona che è anche un lavoratore; continua così a chiedere impegno, talvolta rischiando non solo di invadere l’esercizio della  funzione docente, ma anche inferendo e interferendo con la libertà di insegnamento che, in alcune circostanze, vedo minacciata dal cosiddetto dirigismo (in tal senso la responsabilità delle parole pronunciate dalla ministra Azzolina sono palesi. Infatti, rivolgendosi ai dirigenti scolastici, ha detto: «Voi sì che siete i comandanti della nave…»).
In tali condizioni generali e specifiche, l’insegnante di sostegno può anche essere esasperato dalle ingenti richieste a cui è sottoposto e dai pochi supporti che gli vengono assicurati (in alcuni casi neppure quelli relazionali dei colleghi), della serie «arrangiati», «il disabile è un affare tuo». Ecco perché ho deciso di scrivere anche “a difesa”  degli innumerevoli colleghi insegnanti specializzati: siamo sulla stessa linea con resilienza e tenacia.

Per concludere: come si pensa di poter accompagnare in un percorso di crescita fattiva e attiva i nostri studenti con BES (Bisogni Educativi Speciali)? Vivendo immersi in una realtà a distanza? Oggi si parla di “realtà aumentata” e ciò, a me, docente di sostegno abituato a lavorare con compiti di realtà e nella realtà viva, mi fa semplicemente sorridere, ma è un sorriso amaro.
Si pensa veramente di allenare uno studente con disabilità intellettiva ed esigenze specifiche complesse, senza immergerlo nella semplice realtà del proprio contesto di appartenenza? Io sono disposto anche in tempo di Covid-19 ad andare a casa di chiunque pur di effettuare un lavoro a cui dare un senso compiuto, ma ciò viene impedito in nome della prudenza, della salute pubblica da tutelare. Qui ci sarebbe molto da dire, ma per ora evito e da confinato in casa dico basta agli artefatti della realtà fattuale. La realtà: questa va vissuta in presenza, pur con le cautele del caso specifico.
Occorre crederci consapevoli del fatto che Verum ipsum factum (Giambattista Vico) ovvero “la verità è nello stesso fare”. A mio avviso la piena realizzazione della persona umana potrà avvenire solo permettendo alla persona stessa di divenire soggetto attivo della sua formazione e crescita, attraverso un dialogo e un’azione educativa da estrinsecarsi rigorosamente nei vari contesti sociali ove si estrinseca la vita vera e ove si vivono esperienze in presa diretta, senza vicariare o compensare in modo altro la realtà che ci circonda la quale, in quanto tale, è unica e va vissuta direttamente, in prima persona. Si cresce solo così.
Ad maiora semper.

Insegnante specializzato e consigliere di orientamento.

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