Parto da una nota riflessione filosofica: è meglio vivere in un mondo “buono” o in un mondo “giusto”?
Negli ultimi quarant’anni, a partire dall’abolizione delle cosiddette “classi differenziali”, fino al Decreto Legislativo 66/17, il diritto all’istruzione dei bambini e dei ragazzi con disabilità ha compiuto un lungo, complicato e accidentato percorso, partendo dall’esclusione e passando dall’integrazione, per finire al concetto di inclusione, ossia pari dignità e possibilità per tutti nel rispetto della diversità.
Concetti come il Progetto di Vita e i modelli interpretativi derivanti dall’ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, fissata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.], basati sulla concezione che chiunque, in un dato momento e in un determinato contesto possa avere problemi di salute che determinano l’handicap, ossia la risultante di disabilità più barriere ambientali, hanno dato il via a una rivoluzione prima di tutto tecnica della garanzia del diritto all’istruzione.
In quest’ottica il Progetto Educativo Individualizzato (PEI) non è e non può essere un mero adempimento burocratico, ma un elemento centrale di quel Progetto di Vita, che riguarda non solo l’accesso all’istruzione, ma l’accesso alla vita di relazione in chiave educativa.
Noi assistenti all’autonomia e alla comunicazione collaboriamo alla progettazione e alla stesura del PEI, lavoriamo alla messa in atto e all’implementazione di strategie che attengono alle aree delle autonomie (personali, scolastiche, sociali), della comunicazione con il gruppo dei pari e degli adulti di riferimento, della socializzazione in un’ottica di massimizzazione del comportamento adattivo ai contesti di vita, nel rispetto dell’autodeterminazione del bambino. Lo facciamo all’interno di un setting preciso e di un gruppo di lavoro, esaminando le barriere e i facilitatori dei processi di scolarizzazione e inclusione sociale.
Nei Gruppi di Lavoro per l’Inclusione Scolastica, l’èquipe operativa, di cui noi assistenti all’autonomia e alla comunicazione facciamo pienamente parte, insieme ai professionisti privati e alla famiglia costruiamo insieme il PEI, che rappresenta parte integrante del Progetto di Vita. Si tratta quindi di una costruzione complessa, viva, che ha bisogno, per essere tale, del contributo di tutti i professionisti dell’educazione per poter essere efficace ed efficiente.
E qui veniamo al concetto di provvedimenti emergenziali. La didattica a distanza, all’interno di un evento straordinario qual è l’attuale pandemia da Covid-19, è un intervento sperimentale ed emergenziale, che ha fatto risaltare ancora di più carenze endemiche della scuola italiana. In primis il concetto di alleanza educativa fra scuola e famiglia. Senza il supporto della famiglia, non può esserci didattica a distanza, a maggior ragione nel caso di bambini e ragazzi con disabilità.
In una recente ricerca, il professor Dario Ianes ha sottolineato come il 37% dei bambini con disabilità risulterebbe privo della possibilità di accedere alla didattica a distanza. In una webcall con l’Università di Bolzano, ho avanzato al professore un dubbio di natura statistica: è possibile che, nel caso dei bambini con disabilità che non usufruiscono di didattica a distanza, sia coinvolta anche la “sparizione degli assistenti all’autonomia e alla comunicazione”, come giustamente sottolineato anche dall’avvocato Salvatore Nocera proprio su queste pagine?
Forse, il vero problema potrebbe essere la sparizione del PEI e dei Gruppi di Lavoro per l’Inclusione Scolastica (GLIS). E soprattutto, l’estromissione di fatto di noi assistenti all’autonomia e alla comunicazione dagli stessi GLIS.
Abbiamo sentito Ministri e Assessori parlare (molto poco) dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità, nessuno, però, che sia reso conto davvero, del tipo di funzione che svolgiamo, del peso che la funzione educativa ha nei processi di inclusione. Il risultato è che in molti Comuni il servizio è stato riattivato con colpevole ritardo, con le ore diminuite (e spesso conteggiate solo “in sincrono”, come se la progettazione, la preparazione del materiale, la necessaria formazione, fossero accessori inutili…). Nella maggior parte dei Comuni ancora non è avvenuto nulla e moltissimi colleghi, per non abbandonare bambini e famiglie, hanno continuato a seguire i propri bambini “clandestinamente”.
Le soluzioni proposte sono solo “figlie” di qualunque programmazione seria, emergenziali, appunto. Come l’assistenza domiciliare che, nei casi in cui necessitava, doveva seguire i percorsi stabiliti per legge (Legge 328/00, Progetti Individuali di ASL e Comuni e operatori dedicati e formati appositamente). Percorsi che dovevano essere attivati subito, per evitare di confondere la funzione socio-assistenziale con quella scolastico-educativa.
Il punto è che in emergenza si cercano soluzioni buone. Ma in emergenza, soluzioni “buone” prive di programmazione e confronto fra le parti non sono necessariamente “giuste”. E difatti il punto è questo.
Per esemplificare la differenza esistente fra servizi socio-educativi e socio-assistenziali – e in quali condizioni a volte ci si trovi ad operare – riporterò un episodio riferitomi recentemente.
Un collega che svolge assistenza domiciliare con una persona in condizioni di indigenza e precarietà igienico-abitativa (Servizio SAISH, a Roma) mi raccontava che la cooperativa ha chiesto a lui di certificare in forma scritta (probabilmente per scarico di responsabilità sui rischi sanitari) una, evidentemente non avvenuta, certificazione della sanificazione della casa del signore…
Quando si parla di servizi socio-assistenziali territoriali, bisognerebbe averli svolti per qualche tempo, per parlarne con cognizione di causa. E avere ben chiara la differenza e le necessità tipiche del contesto domiciliare e quelle del contesto scolastico, rispettando le modalità previste dalla Legge 328/00.
C’è una differenza evidente fra volontariato e professionalità. Il volontariato è “buono”, quindi soggetto a grandi margini di errore (collusione emotiva, disconoscimento delle funzioni, scarico di responsabilità da parte dei Servizi territoriali e dello Stato…). La professionalità è “giusta”, perché nasce in un contesto improntato alla complessità e all’analisi dei costi-benefici. Quando i costi sono troppo alti, anche in termini di svilimento del “capitale umano”, l’unico risultato possibile è il burn-out e l’abbandono della professione.
Il fatto che in questa emergenza la figura dell’assistente all’autonomia e alla comunicazione sia stata sostanzialmente “estromessa dalla scuola” è legato a doppio filo alla mancanza di reale considerazione del valore del PEI e dei Gruppi di Lavoro di Inclusione Scolastica. Nonostante il Decreto Legislativo 66/17, in una ricerca che ho svolto sul campione dei colleghi della scuola dell’obbligo nel Comune di Roma, è risultato che solo il 22% partecipa stabilmente alla stesura del PEI, il 32% solo parzialmente.
Dunque, la metà degli assistenti all’autonomia e alla comunicazione di Roma non partecipa alla progettazione degli interventi che andrà ad effettuare ed implementare per l’inclusione scolastica. E così e stato, a livello macronazionale, per la didattica a distanza.
Di quale reale inclusione scolastica si può parlare se tutti gli attori protagonisti della progettazione educativa non vengono coinvolti? Di quale inclusione scolastica si può parlare se, in sede di definizione del Profilo Professionale Nazionale al Ministero (Decreto Legislativo 66/17, articolo 3; Decreto Legislativo 96/19), non è presente alcuna rappresentanza degli assistenti all’autonomia e alla comunicazione?
L’inclusione è una cosa seria, che necessita di confronto costruttivo e inclusivo fra le parti e di un ragionamento sulle professionalità che la abitano. Ed è necessaria una riflessione seria sul futuro dell’inclusione scolastica, specie al netto di cosa ha provocato, nel profondo della scuola italiana, lo tsunami del Covid-19, che ne ha messo a nudo ogni più piccolo difetto, ivi inclusi i diritti dei bambini con disabilità e il ruolo assolutamente marginale, ai fini del coinvolgimento e della programmazione degli interventi, degli assistenti all’autonomia e alla comunicazione. Che pure, nella vita scolastica “ordinaria”, “normale” hanno un ruolo importantissimo, senza che a questo corrisponda un reale riconoscimento.
In sostanza, per il futuro, bisognerà chiedersi: preferisco una scuola “buona” o una scuola “giusta”?