In un precedente articolo, su queste stesse pagine, ho cercato di spiegare quale sia l’innovazione che ha portato al modello sociale della disabilità e quanto sia stata utile, nei suoi aspetti più illuminanti, a dotarci di una prospettiva più moderna: al di là del deficit in sé, la società può fare molto per rendere le persone con disabilità quanto più partecipi e attive possibile. Detto in modo ancora più esplicito, è la società che può “abilitare” o “disabilitare” i propri componenti.
Il modello sociale, contrapposto a quello medico, si è evoluto tuttavia verso un paradigma ancora più completo: il modello bio-psico-sociale.
Come si evince chiaramente dal nome, la teoria prende in analisi diverse componenti, in particolare la condizione umana in sé, il mondo che la circonda, gli aspetti psicologici del soggetto, e le mette in relazione. Una relazione, come si può intuire, che può cambiare in continuazione.
Mi fermo però qui, in quanto scendere nei dettagli del sistema ICF (la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, fissata nel 2001 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che è alla base del modello bio-psico-sociale), per arrivare alla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con disabilità del 2006, prenderebbe molto tempo e molte pagine. Credo che il concetto di massima sia quello espresso, per cui ho piacere di cambiare registro e dare spazio alle parole di Tom Shakespeare.
Shakespeare, scienziato sociale esperto in disabilità e disabile egli stesso, ha contribuito, tra l’altro, alla stesura di alcune parti della Convenzione ONU e in un suo recente lavoro, Disabilità e società, ha indagato il rapporto, appunto, tra disabilità e società, secondo una visione pragmatica, che da sempre caratterizza i suoi studi.
«Seguire il modello sociale senza testare la realtà dei fatti, le singole esperienze e il vissuto di ciascuna persona con disabilità – osserva – potrebbe non essere del tutto utile». L’analisi di Shakespeare si concentra principalmente sul Regno Unito, dove il modello sociale ha avuto un forte seguito, ma si allarga, ovviamente a tutto il mondo.
Prima di citare alcuni passaggi di Disabilità e Società che mi hanno veramente colpito, vorrei sottolineare come – e di questo mi sono accorto più volte – molte persone con disabilità non conoscono veramente a fondo la propria storia, né i propri diritti. Questo è il punto centrale che vorrei toccare. Per chiedere alla società ciò di cui abbiamo bisogno, per essere alla pari e competitivi, infatti, abbiamo anche bisogno di conoscere noi stessi, quale che sia la nostra condizione. Questo implica anche il padroneggiare le teorie sulla disabilità che spesso le persone senza disabilità “cuciono” sui disabili stessi e Shakespeare lo spiega molto bene.
Questi sono alcuni tra i temi toccati dallo studioso inglese che mi hanno fatto riflettere.
Più semplice non significa semplificare
Shakespeare cita Einstein («Rendi tutto più semplice, ma non semplificarlo»), per spiegare come dovrebbe essere una teoria. Una teoria – stavolta il riferimento è a Guglielmo di Occam – che non postuli “entità inutili”.
Effettivamente, le teorie belle e inutili al progresso del mondo oltrepassano sovente l’inutilità stessa e diventano addirittura dannose.
Attenzione al linguaggio
Anche qui Shakespeare sorprende tutti con un’osservazione in controtendenza. Cito testualmente: «Cavillare sulla dicitura “persone disabili” contro “persone con disabilità” non fa altro che distrarre dall’unirsi nella causa comune di promuovere l’inclusione e i diritti dei disabili».
Un messaggio forte, senza dubbio, ma che ritengo profondamente utile. Giusto conoscere e ammodernare il linguaggio ma, anche in questo caso, ciò non va fatto diventare una mera questione di principio. Preferisco vivere in un Paese in cui mi chiamano “Daniele il sordo” ma avere tutti i programmi sottotitolati, piuttosto che essere definito “persona con disabilità” e trovarmi senza un supporto adeguato: verrebbe meno la mia cittadinanza. Direi non poco…
Esperienza del disabile
È il filo conduttore di tutto il libro: non si può ignorare l’esperienza che ciascuno di noi vive. Ogni buona teoria dovrebbe tenerlo in considerazione. Esemplare, a tal proposito, è questo passaggio che riporto integralmente: «I comuni disabili in genere non vedono la propria vita nell’ottica degli alti concetti teorici sposati da questi accademici (Priestley, Waddington e Bessozi, 2010). E neppure sono felici di liquidare il problema della menomazione e del suo impatto fisico e mentale, che è una realtà quotidiana per tanti disabili».
La percezione dei non disabili
Attenzione, ora, a questo passaggio che ritengo decisivo: «[…] le persone non disabili in generale percepiscono la menomazione come molto più negativa e limitante di coloro che ne fanno esperienza diretta».
Questo credo sia davvero illuminante. Quante volte, infatti, leggo nello sguardo di persone senza disabilità afflizione nel guardare un disabile, quale che sia la disabilità… Eppure nessuno di noi può realmente sapere quanto possa essere felice e realizzata quella persona con disabilità. Magari lo è più di noi. Magari vive la sua vita con più pienezza… chi può dirlo?
Potrei veramente continuare a lungo; posso solo caldamente suggerire la lettura di un libro che lascerà un segno importante in ciascuno di voi. La disabilità, e non soltanto per il suo impatto numerico, è molto più di una condizione o di una teoria: è una questione filosofica che ci riguarda come essere singoli e come società.
Io credo che quando non ci si accorge quasi più della disabilità della persona che abbiamo davanti, quando non vediamo la carrozzina o il bastone o la protesi acustica, quando si parla con una persona autistica con la tranquillità interiore con cui si parlerebbe con chiunque altro, siamo già sulla buona strada. Per fare questo, però, ci vuole allenamento ed è importante sottolinearlo.
Provo a trarre qualche conclusione:
a) spiegare la disabilità alla luce della complessa relazione che si instaura tra un individuo con la propria specifica condizione e i fattori ambientali e sociali è sicuramente la via, ad oggi, più completa per individuare le strategie di inclusione più efficaci. Le teorie servono per sperimentare una condizione di vita migliore: le teorie sono strumenti e dobbiamo essere bravi ad ammodernarle quando serve;
b) questa relazione è sempre mutevole: medesime disabilità danno origine a relazioni diverse, ragion per cui gli interventi per consentire alla persona con disabilità di essere partecipe e attiva vanno cuciti su misura: questo non è altro che un “lavoro di sartoria”;
c) questo “lavoro di sartoria” richiede un forte contributo dai diretti interessati, che per primi possono indicare (e spiegare) all’ambiente circostante quali siano le proprie esigenze. È richiesto dunque alle persone con disabilità di dotarsi di una visione globale della propria condizione, delle leggi, delle teorie, perché essi stessi siano il primo motore del cambiamento. Tutto questo perché il celebre motto Nulla su di noi senza di noi non resti uno slogan recitato, ma non sempre adeguatamente interiorizzato.
Io credo che, in questi anni, stiamo entrando nell’“era adulta” della disabilità: stiamo cioè iniziando a lasciarci alle spalle alcune caratteristiche “adolescenziali” di tutto il movimento per dirigerci verso un futuro dove la voce di una persona svantaggiata sarà sempre più ascoltata perché completamente riconosciuta (e quindi accolta) dalla società.