La Delibera della Giunta Regionale del Lazio con cui l’8 maggio si è stabilita la ripresa delle attività dei centri semiresidenziali a carattere socioassistenziale, socio-educativo, polifunzionale, socio-occupazionale per persone con disabilità, ha ricevuto l’apprezzamento delle Consulte, dei Sindacati, delle Associazioni, delle Federazioni maggiormente rappresentative e del Terzo Settore, che tutte insieme hanno avuto anche la possibilità di dare il loro contributo. Tuttavia la Delibera richiamata è una risposta che non intercetta le situazioni più delicate e complesse poiché, si sottolinea, si rivolge agli utenti di cui all’articolo 10 della Legge Regionale 41/03 e all’articolo 28 della Legge Regionale 11/16.
L’articolo 10 della Legge Regionale 41/03 si riferisce infatti a centri semiresidenziali che prevedono: «a) la somministrazione dei pasti; b) l’assistenza agli ospiti nell’espletamento delle normali attività e funzioni quotidiane; c) le attività ricreative, educative, culturali ed aggregative».
L’articolo 28 della Legge Regionale 11/16 riguarda poi centri diurni e centri anziani. Il centro diurno è una struttura di tipo aperto che fornisce prestazioni socioeducative, di socializzazione, di aggregazione e di recupero, destinate ai soggetti in età evolutiva, alle persone con disabilità e alle persone con disagio psichico; è collegato con le strutture e i servizi del territorio e può offrire anche prestazioni di supporto all’assistenza domiciliare, nonché servizi tesi a dare risposta ai bisogni degli anziani affetti da Alzheimer.
Non abbiamo statistiche ufficiali che possano corroborare la nostra esperienza diretta, e tuttavia le sollecitazioni che continuano ad arrivare dalle famiglie dei nostri associati riguardano molti utenti che fruiscono di centri diurni di cui all’articolo 26 della Legge 833/78, ovvero «prestazioni sanitarie dirette al recupero funzionale e sociale dei soggetti affetti da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali, dipendenti da qualunque causa, erogate dalle unità sanitarie locali attraverso i propri servizi. L’unità sanitaria locale, quando non sia in grado di fornire il servizio direttamente, vi provvede mediante convenzioni con istituti esistenti nella regione in cui abita l’utente o anche in altre regioni» ecc.
É necessario guardare dentro queste strutture, conoscere gli utenti a cui tutte le mattine hanno aperto le porte, fino a quando il Covid-19 non li ha costretti a casa.
Si tratta di adulti giovani e meno giovani che hanno superato l’età scolare, che non hanno acquisito, nonostante l’impegno talvolta strenuo della scuola, delle agenzie di riabilitazione, delle famiglie e di chiunque altro si sia preso cura di loro, le competenze per lavorare, per prendere un mezzo pubblico, per lavarsi, vestirsi, farsi la barba o truccarsi a seconda dei casi, per apparecchiare la tavola, per preparare un pasto, talvolta neppure per mangiare autonomamente, magari perché nutriti per via parenterale. Qui affidiamo il completamento di questo elenco, che può essere lunghissimo, all’intelligenza e alla sensibilità di chi legge, non prima però di aver chiarito che stiamo parlando di persone alle quali la compromissione delle capacità intellettive impedisce di autogestirsi.
I centri di cui all’articolo 26 della Legge 833/78, che si occupano del mantenimento delle abilità fisiche e intellettive di questi cittadini, sono spesso anche l’unica opportunità di socializzazione; e tuttavia in questi due mesi non hanno offerto alcun tipo di supporto ai propri utenti, lasciando sulle spalle delle famiglie, non di rado genitori anziani soli e malati, un carico insostenibile.
Nel ginepraio di ordinanze, linee guida, delibere, regolamenti, prescrizioni e gride di ogni sorta, troviamo solo, per la Regione Lazio, l’Ordinanza del Presidente n. Z00039 del 7 maggio, che si limita a prevedere un ulteriore slittamento al 3 giugno delle prestazioni cui questi cittadini hanno diritto.
Stupisce, rispetto a questa situazione, il silenzio della quasi totalità degli organismi sociali e di rappresentanza del mondo della disabilità.
L’emarginazione e la discriminazione di questi utenti e delle famiglie che se ne prendono cura è evidente! I richiami continui alla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che infarciscono documenti, articoli e discorsi, suonano vuoti e retorici alle orecchie di chi in questo grave frangente è stato totalmente ignorato. Non è un caso che sempre più spesso le famiglie vedano nell’istituzionalizzazione l’unica possibilità concreta per dare un presente e un futuro ai propri figli, anche perché è sempre più netta ed evidente la deriva della Legge 112/16 [“Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare”, N.d.R.], tradita nella lettera e nello spirito! Sembra un altro argomento… ma non lo è!
A questo punto non vogliamo piangere sul latte versato, vogliamo invece sollecitare, chiamare a raccolta, tutti coloro che con noi hanno plaudito alla Delibera della Giunta Regionale del Lazio dell’8 maggio, perché ci si impegni alla riattivazione, anche rimodulandone le attività, dei centri di cui all’articolo 26 della Legge 833/78.
I fondi previsti nel recentissimo “Decreto Rilancio”, in particolare i 40 milioni del “Fondo di sostegno per le strutture semiresidenziali per persone con disabilità”, che ha appunto per finalità il supporto alle strutture semiresidenziali, comunque siano denominate dalle normative regionali, a carattere socio-assistenziale, socio-educativo, polifunzionale, socio-occupazionale, sanitario e socio sanitario per persone con disabilità, vadano nella Regione Lazio ai centri di cui all’articolo 26 della Legge 833/78, almeno in proporzione alla consistenza numerica degli utenti che li frequentano.
L’isolamento, l’emarginazione, la discriminazione sono percepite dalle famiglie e ancora di più da chi faticosamente cerca di rappresentarle.