Lo abbiamo conosciuto studiando la nostra lingua madre: l’ossimoro è quella figura retorica che consiste nell’unione sintattica di due termini contraddittori, come gli abusati “assenza ingombrante” o “silenzio assordante”. Ed è stato attribuito in più casi alla didattica a distanza applicata per necessità con l’emergenza Covid-19. Docenti e genitori, quelli a viverla in prima linea, ne hanno capito l’essenza e ne hanno vissuto pregi e difetti. Ma in tanti continuano a ribadire che si tratta di qualcosa da usare solo ed esclusivamente “in tempi di guerra”. E basta.
Abbiamo approfondito il tema con Marco Condidorio, direttore scientifico dell’IRIFOR Molise (Istituto per la Ricerca, la Formazione e la Riabilitazione dell’UICI-Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti) e docente nella scuola secondaria di secondo grado, che di didattica disciplinare, nonché specifica, ne macina da anni, facendone la sua vita. (Antonella Iammarino)
Professor Condidorio, didattica e distanza sono due termini proprio incompatibili?
«Assolutamente sì. La didattica è per definizione relazione tra due o più persone le quali, per vivere in modo completo il percorso di istruzione ed educazione, si trovano in uno spazio: l’aula! Poiché ogni persona di quella “relazione” educativa occupa, col proprio corpo, uno spazio fisico diverso da quello d’ognuno dei componenti il gruppo, che virtualmente si ritrova in uno spazio virtuale, l’aula del prossimo futuro, come può la didattica a distanza permettere di vivere in modo diretto quella relazione educativa? Dunque, o parliamo di didattica o parliamo di distanza; i due termini faticano, per la stessa natura concettuale per cui sono stati pensati, a definire un binomio costruttivo che tenda ad un risultato scolastico degno di un percorso educativo reale. La relazione tra bambini e maestra, tra alunni e insegnante, fra studenti e docente è qualcosa che supera ogni astrazione e progetto politico sul presente e futuro della e per la scuola: di fatto è costruzione fisica di linguaggi corporei, di lessici emozionali ed emozionanti, di relazioni umane di simpatia e antipatia, di sguardi generosi e ammiccanti, di sfioramenti e fragranze, di carezze e scappellotti! Sono questi i punti di forza della stessa didattica. E d’altro canto, è quella scolastica in presenza, la vera istruzione».
L’istruzione pubblica in Italia nel 2020 ha fatto ricordo alle lezioni online che, non si può negarlo, hanno salvato l’anno scolastico, seppur con tutti i loro limiti soprattutto in termini di accessibilità. Ma che cosa si sono persi in termini pratici i nostri alunni senza la didattica frontale?
«Rispondo a mia volta con alcune domande. Come possiamo insegnare a conoscere e riconoscere le passioni? Come spieghi le emozioni ad un gruppo di alunni-studenti attraverso uno schermo di pixel? La didattica frontale in realtà è più di un concetto, è vita quotidiana fatta di incontro, affiatamento e convivenza.
Gli stessi giganti della letteratura italiana e internazionale hanno speso la loro vita per trasmetterci i valori su cui l’uomo costruisce il proprio cammino, con cui può comprendere la propria natura di essere pensante. La Montessori, ad esempio, ha dedicato la propria vita alla costruzione di un modello educativo che tiene conto prima della natura umana, poi di quella della relazione. Pongo altre domande: come insegni ad un bimbo la bellezza dell’alfabeto, i suoni e l’estetica delle singole letterine? Come puoi guidarne e accrescerne le conoscenze e le capacità di lettura, se lo hai lontano? E l’esperienza del mondo fisico, come può essere mediata da uno spazio virtuale? La morbidezza e la rigidità dei materiali; il loro peso, la loro consistenza. La possibilità di manipolare materiali quali la plastilina o la creta e di farlo in gruppo con i propri compagni; di creare con loro e con loro di costruire storie e giochi. Imparare a tenere in mano un pennello, una matita. Fare una riga, disegnare un cerchio piuttosto che una casetta…».
In effetti certe esperienze, così determinanti per la crescita di ogni “cucciolo d’uomo”, non lasciano spazio a molte alternative. Penso anche all’ambiente che ospita il momento dell’insegnamento. Il luogo in cui le emozioni si incrociano, si scontrano e si compongono. Come si può sostituire?
«“Mi disegni una pecora?”, chiede il Piccolo Principe al pilota nell’omonimo straordinario romanzo di Antoine de Saint-Exupéry. Ce la vede lei una maestra intenta a realizzare un disegno per un bimbo, lei nel cucinino di casa e il bimbo nel salottino di casa sua? O magari, nel rispetto del distanziamento sociale, entrambi mascherati, uno su un banco, la maestra sull’altro? E il gioco, non è forse grida, risate, manate e abbracci?
La didattica è relazione, ma anche necessaria frustrazione, quando c’è senso di sconfitta di fronte alla difficoltà. La didattica è colore, disegno, manipolazione, orientamento, esplorazione, non solo corporea, ma anche dell’ambiente, quello dell’aula, della scuola. È costruzione di relazioni, non solo tra i compagni, ma anche con gli adulti, loro maestri e anche con il personale scolastico. Tolleranza e comprensione. Ascolto e riflessione. Esposizione del proprio pensiero e accoglimento di quello altrui».
Ecco un altro punto cruciale. L’assenza di empatia in un ambiente frammentato come quello virtuale. Manca la percezione del bisogno e una scarsa possibilità di aiuto reciproco? C’è molta testa, mi viene da dire, ma viene meno il cuore o forse non ce n’è abbastanza…
«Il reciproco aiuto, mutuato e mediato da gesti e attenzioni, non può essere bagaglio esistenziale di una quotidianità virtuale o semimascherata. Anche poter vedere il proprio compagno piangere per magari asciugargli la lacrima sulla guancia non ha un corrispettivo virtuale che possa surrogarne l’evento, il gesto fisico accompagnato dall’emozione. È come chiedere ad un essere umano, nella fase di crescita, di imparare a riconoscere il sole e il rumore del mare attraverso una cartolina, un semplice film.
Il sapore è fisico, personale, immediato, non mediabile attraverso lo schermo freddo di un personal computer. Il calore del vento, il freddo del ghiaccio, la sensazione che si prova nel tenere tra le dita i fiocchi di neve, non hanno altra realtà che possa trasmetterne l’esperienza. Immaginiamo poi se quel bambino, alunno o studente è cieco assoluto o ipovedente grave, tutto ciò sarebbe davvero assurdo».
In sintesi, quindi, che cosa ne facciamo di questa didattica a distanza? La cestiniamo? Ne teniamo una parte?
«Sia chiara una cosa: io l’ho subito difesa la didattica a distanza, l’opera camaleontica che ha permesso di tenere vivo il dialogo scolastico, pur virtuale, con milioni di bambini, alunni e studenti. L’ho difesa dalle prime illuminanti riflessioni di chi, pur non essendo protagonista attivo di questo metodo, sentenziava già dalle prime ore dell’evento straordinario, sull’inutilità del metodo, richiamando i fondamenti pedagogici che tutti come docenti conosciamo. Ma affermazioni volte a demolire erano inopportune e irrispettose nei riguardi degli stessi bambini, alunni e studenti, nonché del corpo docente tutto. Intendiamoci: stiamo dando tutti il massimo. Magari non sarà il meglio, potevamo fare di più, vero, ma quanto è stato fatto sin qui è davvero tantissimo.
Oggi, però, giunti quasi al termine dell’anno scolastico, iniziano ad aggirarsi strani fantasmi per il Paese e soprattutto negli ambienti ministeriali e non solo. Ma se il Paese ha reagito così bene alla didattica a distanza – sentiamo ogni tanto affermare – perché non prendere in considerazione l’uso delle tecnologie e proseguire con questa metodologia di istruzione? Oppure, per risolvere i problemi legati alla sicurezza, definiamo un nuovo scenario scolastico: aule semivuote in cui fare stare metà o meno degli studenti di una classe; mentre l’altra metà seguirà la lezione da casa su piattaforma web. Vuole immaginare con me lo scenario? Eccolo. Una bambina, mascherata, seduta al centro di una figura composta da cinque banchi. Quello a cui è seduta la nostra bambina; un banco dietro e uno davanti, due ai lati, sinistro e destro. I quattro banchi rigorosamente vuoti, per consentire il distanziamento sociale di almeno un metro. Potremmo definire la figura col concetto del segno matematico “più”. O, il che forse si addice meglio, al simbolo della “croce”. Questa composizione si ripete tante volte quante ne sono consentite dallo spazio dell’aula. Poi, di fronte a loro, rigorosamente mascherato, l’insegnante. Cinque ore. Cinque lunghe e interminabili ore in cui gli alunni e gli studenti dovranno vivere la loro nuova scuola, quella di un carnevale senza alcun sorriso né emozioni. Sulla cattedra, debitamente sistemato, il computer col quale lo stesso insegnante terrà lezione all’altra parte degli alunni o studenti. Connessioni precarie per una didattica, per metà a distanza e per metà in rigorosa diretta mascherata!».
Definito così, lo scenario è quasi agghiacciante.. Ma c’è qualche via d’uscita allora secondo lei? A settembre le condizioni sanitarie generali di oggi, non saranno cambiate, questo è certo. Ma come evitare questo triste scenario? Ci sono vie concrete per alleggerire in qualche modo questo momento?
«Anzitutto la salute al primo posto, come è giusto che sia, anche se questo mantra rischia di falsare lo spettro dei valori sociali, offuscando la ragione del cittadino. D’altro canto, l’istruzione e l’educazione dei nostri alunni e studenti rappresentano uno dei valori sociali di cui non dobbiamo perdere il significato più autentico, quello cioè di rappresentare il bagaglio delle conoscenze e delle competenze per i nostri figli, futuri cittadini di domani.
Certamente è necessario mettere mano a un nuovo sistema di fare scuola, che non eserciti il distanziamento sociale come metodo per lo svolgimento di una didattica tradizionale, ma eventualmente per ripensare la stessa didattica tradizionale, per trasformarla in qualcosa che non assomigli ad un’emergenza, ma alla normalità, in cui la relazione continui a essere il perno educativo-didattico attorno cui costruire il percorso di istruzione per tutti i bambini, gli alunni e gli studenti della scuola italiana.
Sto pensando, ad esempio, a un sistema di fare scuola “avanguardista” (di cui esistono in Italia oltre cento sperimentazioni, in altrettanti istituti scolastici), in cui non solo cambi la relazione didattico-educativa tra insegnante e studente, ma anche la struttura dell’ambiente di lezione; cioè a dire ambienti ampi e predisposti per lo sviluppo di una didattica non necessariamente frontale, come quella attuale che da tanto tempo si ripete, oramai dal lontano Ottocento».
Per ulteriori informazioni e approfondimenti: segreteriacondidorio@gmail.com.
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