Nella tradizione dei paesi di frontiera, il passeur (in italiano letteralmente “traghettatore”) è colui che aiuta i clandestini a passare il confine. Per fare questo deve conoscere il percorso, le abitudini delle guardie frontaliere, le risorse psicofisiche delle persone da accompagnare, i problemi e gli imprevisti che possono insorgere lungo il cammino. Dal passeur dipende la possibilità di passare il confine.
Anche la disabilità necessita di esperti passeur per entrare nel mondo del lavoro e i “passeur della disabilità” sono gli operatori dei servizi e delle imprese che conoscono i possibili percorsi di accesso al lavoro, le potenzialità e le aspettative di chi devono accompagnare; i tempi, i modi e le regole che dovranno rispettare, e le eventuali problematicità in agguato.
Purtroppo gli attuali passeur non sono adeguatamente preparati, sono mal distribuiti, e del tutto insufficienti come numero. Soprattutto preoccupa l’impreparazione degli operatori del Collocamento Disabili, delle Agenzie per il Lavoro, dei SIL (Servizio Inserimenti Lavorativi), dei Servizi Socio-Sanitari, dei Centri di Formazione Professionale, delle Cooperative Sociali, ossia di coloro che devono farsi carico delle persone e promuovere la transizione al lavoro e alla cultura inclusiva. Non conoscono le leggi che regolano il mercato del lavoro, non conoscono il mondo produttivo, l’organizzazione aziendale, le norme che regolano i rapporti di lavoro, il linguaggio imprenditoriale e le strategie di marketing. Mentre, dal canto loro, i “passeur delle aziende” non conoscono la disabilità, i servizi, le norme, le procedure e le facilitazioni che appartengono a questo mondo. Diventa pertanto difficile parlare di collocamento mirato, di valore aggiunto della persona con disabilità in azienda, e incolpare la Legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili) e le aziende di ogni fallimento. Nel frattempo i disabili (profughi in cerca di lavoro) restano perennemente in attesa, guardando i “privilegiati” che lavorano oltre il confine.
L’inclusione lavorativa deve nascere da un progetto culturale e politico, per poi strutturarsi e organizzarsi tecnicamente, e non viceversa. Qualsiasi approccio scaturito da norme, esigenze organizzative e procedurali è destinato al fallimento. Un rapporto nato da un’arida imposizione burocratica difficilmente porterà chi è coinvolto a una reciproca partecipazione e accettazione.
Ottenere non vuol dire partecipare e tantomeno appartenere. Bisogna pertanto creare un humus culturale aperto, che viva la diversità come possibile manifestazione della normalità, come quotidiano rischio e scontato divenire a cui ognuno di noi è esposto.
Il lavoratore con disabilità non è un valore aggiunto a priori, ma una possibilità che si può concretizzare attraverso il collocamento mirato e una cultura dell’accoglienza che non veda nelle diversità di età, genere, salute e cultura dei potenziali virus contro l’efficienza e l’efficacia produttiva.
Il mondo delle imprese è arroccato perché teme ogni diversità ed è impensabile sconfiggere questo atteggiamento solamente con norme impositive e comportamenti che sono risultati perdenti per oltre mezzo secolo. Queste affermazioni non possono essere negate o rimosse, ma devono imporre nuove strategie di progresso culturale e i possibili artefici del cambiamento sono le figure professionali che vivono il rapporto diretto con le persone disabili e con gli imprenditori. Sono coloro che, se opportunamente formati, possono abbattere i pregiudizi e gli stereotipi, attraverso una nuova e positiva esperienza della diversità.
Le Linee Guida sul collocamento mirato, menzionate nel Decreto Legislativo 151/15, ma mai pubblicate, avrebbero dovuto indicare l’istituzione di una figura chiave nel processo di integrazione, un disability manager come responsabile dell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità, con il compito di predisporre progetti personalizzati di inclusione e il mantenimento del rapporto di lavoro, di migliorare la qualità del lavoro stesso e le relazioni interne all’azienda, mettendo la persona disabile nelle condizioni di essere più produttiva, individuando i cosiddetti “accomodamenti ragionevoli”, contenendo la conflittualità, favorendo la permanenza al lavoro, nonché monitorando gli ostacoli di carattere organizzativo e ambientale che ostacolano l’integrazione. Per i costi relativi era possibile ricorrere al Fondo Regionale.
È quindi indispensabile partire dalla formazione del personale dedicato e delle figure professionali coinvolte nel processo di collocamento al lavoro. Sarà così possibile offrire alla persona con disabilità in possesso della certificazione di invalidità, la disponibilità di operatori in grado di sostenerlo nel percorso inclusivo.
Il disability manager, dunque, è quella figura che all’interno delle aziende e dei servizi può facilitare tutto il processo di inserimento al lavoro delle persone con disabilità.
Le aziende soggette agli obblighi di cui alla Legge 68/99, non essendo in grado di gestire l’inserimento di lavoratori con disabilità, e non conoscendo né le norme né le procedure, ricorrono a forme di evasione, elusione o a sistemi alternativi al rapporto dipendente, o anche cercando lavoratori “disabili-abili” e avvalendosi di consulenti spesso impreparati in materia. Questo evidenzia quanto sia ancora lontana una diffusa cultura inclusiva da parte del mondo del lavoro, e al contempo quanto le imprese abbiano bisogno di aiuto. Aiuto che può venire appunto da una figura preparata per essere responsabile dell’intero processo inclusivo, che attivi comportamenti e azioni utili a migliorare le condizioni di lavoro del dipendente disabile, conciliando il diritto al lavoro e all’inclusione lavorativa con le esigenze di efficienza produttiva dell’azienda.
Il disability manager, esperto nella gestione delle risorse umane con disabilità, è il promotore e il supervisore delle azioni di pianificazione, programmazione, reclutamento, selezione, inserimento, formazione e conservazione del rapporto di lavoro. È colui che facilita le relazioni interne, individua le soluzioni tecniche e organizzative per mettere la persona con disabilità nelle condizioni di essere produttiva in modo congruente con le sue possibilità e potenzialità. Inoltre sensibilizza i colleghi, contiene le conflittualità, garantisce la sicurezza, rimuove gli ostacoli organizzativi, ambientali e comportamentali che limitano l’integrazione, favorendo così un clima aperto e un’opportunità di reciproco successo. Egli valorizza infine l’autonomia e la professionalità del lavoratore, conciliando le esigenze di vita, di cura e di lavoro.
Le linee di indirizzo contenute nel primo articolo del citato Decreto Legislativo 151/15 hanno richiamato una particolare attenzione verso la figura del disability manager e dal canto suo la Regione Lombardia, nel quadro dell’aggiornamento degli standard professionali, tramite il Decreto n. 2922 del 1° marzo 2018, ha approvato il profilo professionale del disability manager stesso, collocandolo in tali àmbiti: Livello EQF: 6 (Quadro Europeo delle Qualificazioni); Classificazione Internazionale delle Professioni ISCO 2423 (Specialisti di personale e sviluppo di carriera); Classificazione Nazionale delle Professioni ISTAT 2.5.1.3. (Specialisti di gestione e sviluppo del personale e dell’organizzazione del lavoro); Classificazione Nazionale delle Attività economiche ATECO 701 (Attività di direzione aziendale).
Tale figura deve quindi essere in possesso di conoscenze in merito al mercato del lavoro “debole” e alle politiche attive e di welfare. In concreto ci si aspetta che sia in grado di:
° gestire gli obblighi di cui alla Legge 68/99;
° promuovere rapporti con i Servizi Territoriali pubblici e privati;
° conoscere le buone prassi e le agevolazioni di settore;
° curare la ricerca e la selezione delle persone con disabilità da reclutare nell’organico aziendale;
° coinvolgere e sensibilizzare il personale interessato;
° gestire i problemi connessi alla presenza di lavoratori con disabilità in azienda;
° monitorare le singole situazioni presenti in azienda;
° prevenire il rischio di disabilità o aggravamento;
° implementare utili accomodamenti ragionevoli;
° curare il proprio aggiornamento.
Si tratta pertanto di un vero e proprio mediatore fra la disabilità e il mondo del lavoro, fra il mercato del lavoro e i Servizi Territoriali, fra la singola azienda e la singola persona con disabilità. Egli rappresenta inoltre un’opportunità disponibile nel momento del bisogno, per l’azienda e per tutti i lavoratori. E ancora, se ricco di cultura, professionalità e creatività, può essere anche il promotore di un cambiamento etico all’interno dell’azienda: le imprese che hanno sperimentato il disability manager, infatti, ammettono che sono migliorate le qualità di relazioni all’interno del gruppo di lavoro, sono diminuite le conflittualità, ed è aumentata la produzione.
Tuttavia questa figura stenta ad imporsi come utile necessità per il mondo imprenditoriale. Sarebbe pertanto auspicabile che essa diventasse una presenza obbligatoria e che nel frattempo ne venisse meglio curata la formazione; a detta, infatti, di molti partecipanti ai momenti formativi, gli incontri sono interessanti, ma poco utili ad apprendere come gestire le problematiche che l’azienda si trova a dover affrontare nella quotidianità. Università e Associazioni si sono impegnate nel promuovere aggiornamenti, corsi, master ecc., per preparare il personale aziendale e i giovani laureati a questa nuova professione, incentrando la formazione su elementi di psicologia e pedagogia del lavoro, conoscenza delle varie tipologie di disabilità, tecnologie assistive, abbattimento di barriere, gestione delle risorse umane, organizzazione e comunicazione aziendale, normativa di settore e contrattuale. Sarebbe però opportuno tradurre la formazione teorica in apprendimenti pragmatici, che consentissero un’immediata e utile ricaduta sui bisogni aziendali, sui dipendenti con disabilità e sui rapporti con i servizi. In attesa dell’obbligo, solo il positivo riscontro imprenditoriale dell’utilità del disability manager può facilitarne la promozione e la diffusione.
L’efficacia della presenza del disability manager appare quindi evidente e facilmente riscontrabile, mentre più difficile è comprendere la necessità di disporre di uno specifico osservatorio all’interno delle aziende.
Nonostante, come detto, le Linee Guida previste dal citato Decreto Legislativo 151/15 non siano state pubblicate, sia tale norma che il Secondo Programma di Azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità prevedevano che ci fosse, «all’interno delle aziende di grandi dimensioni, una unità tecnica (osservatorio, ufficio antidiscriminazione o di parificazione) in stretto accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, che si occupi, con progetti personalizzati, dei singoli lavoratori con disabilità di affrontare e risolvere problemi legati alle condizioni di lavoro dei lavoratori con disabilità utilizzando appropriate competenze».
La costituzione di tale unità dev’essere su base volontaria e composta dalle rappresentanze sindacali, dal medico del lavoro, da esperti di ausili ecc. Sempre a questo organismo, inoltre, spetterebbe il compito di monitorare il rispetto degli obblighi di legge, di analizzare la reportistica predisposta dal disability manager in merito all’inserimento e all’andamento dei lavoratori con disabilità, di evitare e dirimere eventuali controversie.
La proposta di tale organismo è nata a prescindere dalle logiche, dalle dinamiche e dalle volontà aziendali; è infatti poco probabile che un imprenditore accetti una struttura interna alla ditta con finalità sociali, dove dibattere i problemi inerenti una minoranza, spesso non gradita, di lavoratori. In genere, infatti, l’azienda non vuole “esasperare i problemi”, ma vuole soluzioni rapide a basso dispendio di tempo, energie e denaro. Non a caso, a distanza di cinque anni, le imprese che si sono rese disponibili si possono contare sulle dita di una mano, perché, pur comprendendone i principi ispiratori, difficilmente ne condividono le modalità. Discorso diverso, invece, per la figura del disability manager, che risponde anche ai bisogni dell’azienda.