L’anno scolastico appena trascorso può ben definirsi come un annus horribilis per molti motivi e in particolare, alla luce della chiusura delle scuole, per gli alunni e le alunne con disabilità, nonché per gli assistenti all’autonomia e alla comunicazione, che della loro inclusione si occupano. È un dato, ad esempio, che, come ricordato da Dario Ianes, docente della Libera Università di Bolzano, il 36% degli alunni con disabilità sia “rimasto fuori” dalla didattica a distanza. Ed è pure un dato che solo il 15% delle Amministrazioni Locali abbia consentito, da subito, agli assistenti all’autonomia e alla comunicazione, di continuare a svolgere il proprio compito così come indicato nel PEI (Piano Educativo Individualizzato) (fonte: Questionario Nazionale Assistenti Autonomia e Comunicazione, 2020).
Sgombriamo subito il campo da un equivoco: il fatto che la gestione di queste figure sia demandato agli Enti Locali non consente loro di non erogare il servizio; lo prova anche una recente Sentenza del Tribunale di Marsala (Trapani) che il 13 maggio scorso ha condannato il Comune di Castelvetrano, sempre in provincia di Trapani, per non avere «garantito a una alunna di una scuola della città le diciotto ore settimanali di assistenza all’autonomia e alla comunicazione, che le spettavano, anche con le modalità di insegnamento “a distanza”». Un pronunciamento che ha ribadito il principio secondo cui le ore di assistenza specialistica indicata nel PEI sono vincolanti, in quanto rappresentano il diritto imprescindibile del bambino o della bambina all’istruzione.
Fatti salvi i limiti e le difficoltà che la didattica a distanza ha presentato, in un momento estremamente delicato come quello del lockdown, che per la stragrande maggioranza di questi bambini con disabilità ha comportato il carico aggiuntivo della chiusura delle strutture terapeutiche, privarli anche dell’assistenza scolastica ha comportato sostanzialmente un isolamento ancora più massivo, con il risultato di abbandonare le famiglie e lasciare loro tutto il carico dell’assistenza ai figli. Infatti, la specificità tecnica della figura dell’assistente all’autonomia e alla comunicazione sta proprio nella capacità di rendere accessibili i contenuti comunicativi della didattica, nel sostenere i percorsi di autonomia e favorire la relazione con compagni e adulti.
L’apporto, dunque, che gli assistenti all’autonomia e alla comunicazione avrebbe potuto portare alla didattica a distanza avrebbe potuto essere assai prezioso, in termini di vicinanza affettiva, innanzitutto, ma anche di patrimonio di conoscenza sull’uso di tecnologie multimediali per l’inclusione, di mediazione comunicativa, di supporto alla relazione, con la gestione, in compresenza con gli inseganti di sostegno, di piccoli gruppi di compagni per il mantenimento della relazione sociale.
Tuttavia, anni di gestione approssimativa da parte degli Enti Locali, la necessità di “pareggiare i bilanci” (com’è possibile che un servizio così delicato, che si profila come “livello essenziale di assistenza” sia sottoposto a tali vincoli?), l’estrema confusione organizzativa che si è creata fra cooperative in appalto impegnate in fantasiose coprogettazioni per far ripartire il servizio, e infine, scuole e famiglie del tutto all’oscuro delle motivazioni della sospensione del servizio, hanno prodotto questo risultato a mio parere terrificante, che ha comportato non solo la sospensione di un diritto fondamentale per questi bambini e bambine, ma anche, sul fronte degli operatori, al venir meno del reddito (pochissimi hanno ricevuto l’anticipo del Fondo di Integrazione Salariale, gli altri attendono ancora oppure cominciano solo adesso a ricevere qualcosa dalla Cassa Integrazione in Deroga). Si aggiunga poi che nei mesi estivi, stante la capillare diffusione dei contratti di part-time ciclico, questi operatori non percepiranno alcuna retribuzione.
In alcuni casi, nella Fase 2 è stato disposto che il servizio fosse riconvertito in domiciliare, continuando a confondere figure professionali, àmbiti peculiari di intervento e, soprattutto, senza le necessarie prescrizioni di legge in merito alla sicurezza sanitaria, fornendo cioè dispositivi di protezione individuale insufficienti, formazione sui rischi approssimativa e, soprattutto, senza effettuare i necessari tamponi o la misurazione della temperatura. In spregio, quindi, alla tutela della salute dei bambini, delle famiglie e degli operatori stessi.
Ciò che è importante sottolineare è che non è stata compiuta nemmeno la necessaria coprogettazione degli interventi, inviando l’operatore a casa senza nessuna indicazione né legame con gli obiettivi del PEI (uno dei compiti, ad esempio, era quello di “fare passeggiate al parco”…), dando dunque ad intendere, caso mai qualcuno avesse avuto dei dubbi, che la rappresentazione mentale dell’assistente all’autonomia e alla comunicazione è quella di qualcuno che si occupa di tappare le falle orarie del sistema, che “impegna il bambino” in qualsivoglia attività, non invece, come dovrebbe essere, di qualcuno che educa e sostiene nella crescita, nell’autonomia intesa come autodeterminazione e accompagna bimbi e bimbe nel rapporto con le persone e il mondo che lo circonda.
In questi mesi, la mobilitazione degli operatori è stata altissima, sono nate o sono cresciute Associazioni, Reti di operatori a livello locale, Coordinamenti, Movimenti, Comitati che, come risultato della situazione frammentaria creatasi a livello territoriale (ricordiamo che le sigle locali per definire il servizio sono nell’ordine di una ventina, senza contare i livelli contrattuali o la formazione richiesta, la “Torre di Babele”, appunto), non sempre hanno uguali finalità o idee comuni circa il futuro della professione (quali titoli di ingresso, quale modalità di gestione), esclusa una sostanziale comune istanza rivolta all’internalizzazione del servizio, sottraendolo alla logica degli appalti e del lavoro “a prestazione”.
Alcuni media, soprattutto testate giornalistiche, hanno cominciato a dare voce alle rivendicazioni di questa categoria professionale in un momento così critico. E anche alcune autorevoli voci del mondo accademico, come quella del già citato professor Dario Ianes e del professor Flavio Fogarolo, formatore, si sono levate contro il perdurare di questa situazione, che porta nocumento in primis ai bambini e alla qualità dell’inclusione scolastica.
Sul fronte istituzionale, l’attenzione politica – grazie anche alle iniziative di alcuni operatori e associazioni – è aumentata e ci sono Progetti di Legge giunti in Parlamento e altri che arriveranno, per tentare di sanare e regolarizzare una situazione di precarietà strutturale che va avanti ormai da troppi decenni, non consentendo un’efficace ed efficiente inclusione scolastica dei bambini e delle bambine con disabilità.
A questo punto le priorità da mettere in campo per sanare una situazione ormai incancrenita da troppo tempo, sono sostanzialmente due: un profilo nazionale unico per tutto il territorio del nostro Paese; una gestione istituzionale e internalizzazione del servizio di assistenza all’autonomia e alla comunicazione.
Si tratta di due questioni solo all’apparenza distinte e separate. Facendo infatti un paragone ardito, sarebbe come dire che di un bambino, all’atto di progettare un Percorso di Vita e il relativo PEI, ci si interessasse di privilegiare unicamente la sfera cognitiva, il suo quoziente intellettivo, le sue abilità verbali o logico-matematiche. Se dovessimo però limitarci alla sola sfera cognitiva, non raggiungeremmo alcun risultato soddisfacente, perché sarebbe un progetto monco, parziale. Infatti, se non si tiene conto anche della sfera affettivo-relazionale, vengono a mancare tutti quei fattori che completano un processo di apprendimento efficace: attenzione, motivazione, coinvolgimento, sviluppo della capacità di scelta in base alle preferenze personali.
Nel caso specifico in esame, il necessario Profilo Nazionale si pone come la nostra sfera cognitiva; la sfera affettivo-relazionale può ben dirsi la questione dell’internalizzazione del servizio.
Attualmente, la sola ipotesi normativa percorsa, seppure con notevoli ritardi, è quella del profilo nazionale. La necessità di giungere a «una progressiva uniformità su tutto il territorio nazionale della definizione dei profili professionali del personale destinato all’assistenza per l’autonomia e per la comunicazione personale» è stata definita dall’articolo 3 del Decreto Legislativo 66/17 sull’inclusione scolastica e ribadita dal successivo Decreto Legislativo 96/19, correttivo del precedente, investendo i Tavoli della Conferenza Unificata della responsabilità di definire criteri unici per la professione su tutto il territorio nazionale, con l’apporto significativo dell’Osservatorio Permanente per l’Inclusione Scolastica presso il Ministero dell’Istruzione.
Il Profilo, rispetto al quale i lavori sono iniziati nell’autunno dello scorso anno, terrà presumibilmente conto delle tipologie di disabilità prevalenti di alunni e alunne (disabilità uditive, visive, miste, disturbi dello spettro autistico, disturbi comportamentali, disabilità psicofisiche) e delle relative specializzazioni. Ci auguriamo che si possa presto parlare di un profilo che sgombri il campo da sigle e titoli vari ed eventuali che hanno caratterizzato finora questa professione, contribuendo a fare chiarezza e introducendo standard certi a garanzia del diritto all’inclusione.
E tuttavia, se ci si limitasse solo al profilo, resterebbero in piedi tutte le problematiche che hanno portato alla “sospensione” del servizio (e del diritto) nei mesi appena trascorsi e quelle precedenti ed endemiche: retribuzioni insufficienti e discontinue, committenze multiple pubblico-privato che si scontrano e, soprattutto, la questione legata al fatto che, nella gestione esterna alla scuola, si diventa sostanzialmente “esterni-estranei alla scuola stessa”. Ovvero tutti i fattori che alla lunga rendono questo lavoro precario e poco motivante.
Ritengo quindi che un servizio rispondente a criteri di efficacia ed efficienza debba essere necessariamente gestito in una sede unica, quella competente per materia e tale sede è “naturalmente” il Ministero dell’Istruzione. D’altronde non è un mistero che l’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) abbia espresso più volte e in diverse sedi – la più recente al 12° Convegno Erickson sulla Qualità dell’inclusione scolastica e sociale, nel novembre dello scorso anno a Rimini – la propria disponibilità a trasferire la gestione del servizio di assistenza all’autonomia e alla comunicazione all’interno del “sistema formativo pubblico”, spostando eventualmente i fondi attualmente destinati agli Enti Locali.
Non si tratta, per altro, di un passaggio normativo semplice, né immediato, dal momento che si tratterebbe di modificare parte della legislazione vigente in materia, ma non è impossibile. Nulla, infatti, con la necessaria volontà politica, è impossibile, anche perché per una civiltà inclusiva che parta dalla scuola e da quegli operatori che di inclusione si occupano con competenza e passione ormai da decenni, e che sono sempre in attesa di essere “riconosciuti”.
Dal 1992 ad oggi la scuola è cambiata: che sia arrivato il momento di cambiare anche questo, ovvero di internalizzare gli assistenti all’autonomia e alla comunicazione?