Sento molto parlare di Alex Zanardi. E mi indigno. L’esternazione più intollerabile è la citazione a sproposito del verso di una canzone di Roberto Vecchioni, che dice: «Se non posso correre né camminare, imparerò a volare».
Alex, bravo, bello e ricco. Se non ricco con un mucchio di conoscenze. O con una botta di circostanze positive a manetta da fare paura. Come Beatrice Vio, detta “Bebe”. O come me, nel mio infinitesimo piccolo.
Ricordo il “popolo dei disabili”, me compreso per un certo periodo, che guardando ad Alex appena ripreso a muoversi, diceva: «Bravo sì, però con tutti quei soldi è facile trovare le strade giuste per diventare campioni, le protesi gliele danno gratis». Altri dicevano: «Gli mancano le gambe ma mica è paralizzato». E via alla corsa al paragone con chi era messo peggio. Io, in questo senso, avrei potuto non avere eguali.
Tirato il fiato, fatta la tara, bisogna considerare la persona: lui ha avuto possibilità che molti si sognano e probabilmente ci sono persone con condizioni di salute più gravi della sua che avrebbero fatto lo stesso, se non meglio, ma lui è quello che abbiamo davanti ed è lui la persona cui dobbiamo fare riferimento.
Ci sono altre persone migliori? Peccato non poterle conoscere. Peccato non abbiano un contesto simile al suo per potersi affermare. Molti di noi vorrebbero avere il suo intorno, ma non ce l’hanno. La storia è questa. Lui è alla ribalta, facciamocene una ragione e andiamo avanti, per cortesia.
Che dire? Alex Zanardi è un esempio di vita. È una persona che non ha mai mollato. È quello della regola dei cinque secondi, che dice che quando arrivi al limite devi provare a resistere ancora per cinque secondi. È uno che si cura e affronta le asprezze della vita con il sorriso. Alex sa essere ironico e autoironico. È un personaggio che sa attirare lo sguardo con eleganza e vera umiltà. In pratica ha tutte le doti per affascinare le folle, per essere assunto a modello e per diventare l’esorcismo a misura di popolo. È lo scacciapensieri, l’alibi del “vorrei ma non posso”, la certezza del campione da giostra medievale su cui puntare lo sguardo per non affrontare le proprie sventure.
Persino il dibattito in merito alla colpa dell’incidente e su quanto la colpa pesi sugli effetti e sul giudizio morale lo perpetua in un altro, in un laggiù indefinito ottimo per conversare. Un lontano da noi quanto basta per poterne definire i contorni senza restare elettrizzati dalla scossa vitale.
Ecco perché ce l’ho con quel verso e non certo con il suo autore, Vecchioni, «se non posso correre né camminare, imparerò a volare»… In queste parole, decontestualizzate dalla canzone, vedo un tu sottinteso, un’alterità odiosa dove l’altro è un estraneo da ammirare senza compartecipazione. C’è un messaggio attribuito a un lui senza gambe che non è affatto il nostro. Basta con i personaggi additati come feticci. Basta chiacchiere, post, filmati e considerazioni di vuota ammirazione.
Zanardi ci dà la ricetta per uscire dal “virus”: parole giuste e fatti. Se qualcuno pensa che io stia parlando del Covid-19 lo creda pure. Chi immagina stia parlando del virus dell’ipocrisia avrà centrato il bersaglio.
La vita si vive, ammirare quella degli altri senza affrontare la propria è un diletto fin troppo simile a un puro gioco di parole. Se si ammira Alex e lo si considera veramente un esempio, non resta altro che questo: su le maniche, olio di gomito e pedalare.
Il presente testo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Alex Zanardi e il diletto del lontano da me”). Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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