Il 7 maggio scorso il Governo Italiano ha firmato con la CEI (Conferenza Episcopale Italiana) un Protocollo per l’anticipata riapertura delle chiese alla celebrazione delle Messe, che era stata vietata a causa del coronavirus. In tale documento, tra le varie misure di prevenzione e sicurezza sanitaria, è presente il paragrafo 1.8 nel qual si stabilisce che i fedeli cattolici con disabilità seguiranno il culto «in luoghi appositi».
Questa espressione, non contenuta in alcun Protocollo con altre Confessioni religiose, è stata ritenuta da molte persone e organizzazioni con disabilità discriminatoria e così già il 10 maggio chi scrive, che è presidente emerito del MAC (Movimento Apostolico Ciechi), aveva pubblicato su queste stesse pagine un articolo in cui si chiedeva al Presidente del Consiglio, al Ministro dell’Interno e al Presidente della CEI l’eliminazione di quel paragrafo.
Solo due giorni dopo veniva resa pubblica una lettera sottoscritta dal Presidente Nazionale e dall’Assistente Nazionale del MAC, con la quale si rivolgeva la medesima richiesta; in modo analogo, quindi, si muoveva il 18 maggio la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), dilatando all’opinione pubblica la richiesta delle numerose Associazioni ad essa aderenti.
Un mese dopo, infine, vale a dire il 18 giugno, la LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, componente lombarda della FISH), ribadiva la stessa richiesta, tramite il proprio Centro Antidiscriminazione Franco Bomprezzi, insistendo sul carattere oggettivamente discriminatorio delle parole «luoghi appositi», in violazione sia della Legge 67/06 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni), che della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’Italia con la Legge 18/09.
Il 20 maggio, dunque, a rispondere al MAC è stato il Ministro dell’Interno, scrivendo che «quell’espressione è stata orientata non certo a discriminare, ma al contrario a dimostrare una sensibilità nei loro confronti [delle persone con disabilità, N.d.R.], prevedendo una specifica attenzione per le loro particolari esigenze».
Anche alla FISH ha risposto il 3 giugno il Ministro dell’Interno, con testo del tutto identico, quasi si trattasse di due banali e noiose pratiche burocratiche, da archiviare col “copia e incolla”.
Al Centro Antidiscriminazione Franco Bomprezzi della LEDHA, invece – non alla FISH e neppure al MAC – ha risposto il 26 giugno il Segretario Generale della CEI, negando che quel paragrafo del Protocollo avesse intenti discriminatori e precisando anzi che «l’inserimento di una specifica disposizione per le persone con disabilità dice, al contrario, di un’attenzione e cura particolare e specifica».
Personalmente ritengo sincere sia le risposte del Ministro dell’Interno che quella del Segretario Generale della CEI. Quel che però mi lascia assai perplesso è il fatto che tutte le persone con disabilità siano considerate per loro natura “malate”, senza considerare che le loro disabilità sono esiti di «fatti traumatici o morbosi avvenuti lungo l’arco della vita», a partire dal concepimento (Legge 104/92, articolo 3, comma 1), ma non sono più malattie.
Noi persone cieche, sorde, spastiche, con esiti da poliomielite, con sindrome di Down ecc. ecc. ci siamo ormai formati a vivere insieme a tutti, a partire dall’inclusione nelle scuole di tutti, nel lavoro di tutti, nello sport per tutti, nell’insegnamento con tutti, nell’esercizio delle professioni di tutti e come impiegati negli uffici di tutti. Possono chiaramente esservi degli esiti di malattie che producono effetti progressivi (retinite pigmentosa, distrofie muscolari, sclerosi multipla ecc.), ma anche in questi casi le persone con disabilità non ritengono il loro stato come “malattia permanente”, ma si sono attrezzati psicologicamente e organizzativamente a vivere con resilienza la loro vita come tutti e con tutti in una logica di inclusione.
Pertanto non è accettabile il fatto che, secondo il Ministro dell’Interno e il Segretario della CEI, tutte le persone con disabilità siano normalmente considerate come “persone fragili”, senza tener conto invece che tra esse, come in tutta la popolazione, ci sono persone più vulnerabili e meno.
Anche tra le persone anziane, purtroppo, vi è stata una grande mortalità a causa del coronavirus: eppure nei loro confronti il citato Protocollo non ha previsto un paragrafo analogo a quello dedicato a tutte le persone con disabilità. E questo del tutto correttamente, perché gli esperti avranno fatto presente, come è stato dimostrato dai fatti, che sono state vulnerabili solo le persone anziane con malattie pregresse, con immunodeficienze e quelle che erano state messe a vivere in luoghi di grande assembramento come le case di riposo e le RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali).
Anche le persone con disabilità residenti in istituti, come è accaduto ad esempio presso l’Oasi Maria Santissima di Troina (Enna), hanno subìto numerosi contagi, mentre molte altre che si sono attenute alle normali regole di prevenzione e sicurezza sanitaria e alle quali i responsabili dei centri diurni e residenziali hanno usato le medesime attenzioni, hanno continuato a vivere normalmente e a frequentare le Messe alla domenica, dopo la riapertura delle chiese, senza essere confinate in “luoghi appositi” e senza per questo subire contagi.
Se le motivazioni contenute in queste risposte fossero frutto di “maggiore attenzione” per le persone con disabilità, viene da chiedersi perché il Governo italiano non abbia usato la stessa attenzione per i fedeli di altre Confessioni, nei cui Protocolli, come detto, non compare assolutamente un paragrafo del genere. Da ciò desumo che ritenere per definizione tutte le persone con disabilità vulnerabili al contagio costituisca discriminazione ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione ONU, secondo il quale «discriminazione sulla base della disabilità indica qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali». Ancora più chiara è la Legge 67/06, ove all’articolo 2, comma 3 stabilisce che «si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone».
Quindi discriminazione è non solo il disprezzo delle persone con disabilità, ma anche il pietismo, il paternalismo e l’eccessivo “custodialismo”.
Con questo orientamento ritengo pienamente coerente l’Interrogazione Parlamentare sollevata al Senato il 7 luglio scorso, su richiesta dell’Associazione Lega Arcobaleno, dalla senatrice Loredana De Petris, di cui riporto integralmente il testo:
«Al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro dell’interno.
Premesso che: il Presidente del Consiglio dei ministri, il Ministro dell’interno e la CEI hanno sottoscritto un protocollo, in data 7 maggio 2020, concernente le necessarie misure di sicurezza cui ottemperare, nel rispetto della normativa e delle misure di contenimento dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 per la riapertura delle chiese cattoliche al culto;
al punto 1.8 si legge: “Si favorisca, per quanto possibile, l’accesso delle persone diversamente abili prevedendo luoghi appositi per la loro partecipazione alle celebrazioni nel rispetto della normativa vigente”;
in base a quanto risulta all’interrogante, il punto 1.8 del protocollo ha suscitato reazioni critiche e indignate da parte di FISH (Federazione Italiana Superamento Handicap), del MAC (Movimento Apostolico Ciechi), della Lega Arcobaleno e altre associazioni rappresentative di “persone con disabilità” (definizione corretta indicata dall’ONU), non più “diversamente abili” (definizione obsoleta), in quanto si contesta che la previsione di disporre “luoghi appositi per la loro partecipazione alle celebrazioni” nei confronti delle persone con disabilità possa contenere un’immotivata discriminazione sulla base di un’indistinta fragilità comune rispetto ad altri fedeli cattolici;
in base alle informazioni di cui è a conoscenza l’interrogante, il Ministro dell’interno avrebbe dichiarato che la differenziazione rispetto al punto contestato sarebbe stata adottata per garantire una maggior tutela delle persone con disabilità;
a giudizio dell’interrogante, la previsione di “luoghi appositi” di cui al punto 1.8, come evidenziato dalle associazioni citate, appare priva di ogni fondamento scientifico e rischia di introdurre una discriminazione determinando di fatto un ritorno al passato che non garantisce pari opportunità, inclusione e pieno riconoscimento della dignità di ogni persona e del diritto di tutti, senza alcuna esclusione, ad esercitare la libertà religiosa ed a partecipare al culto, in violazione della legge n. 67 del 2006 e della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità;
si chiede di sapere se non si intenda tener conto di quanto esposto e se non si ritenga opportuno procedere con la Conferenza episcopale italiana alla rettifica del citato protocollo al punto 1.8 o, in caso contrario, motivare il perché tale previsione sia stata individuata solo nel protocollo sottoscritto con la CEI e non con le altre confessioni religiose».
Alla luce di quanto sopra, molte di noi persone con disabilità chiedono al Governo di voler cancellare il paragrafo 1.8 del Protocollo nel più breve tempo possibile e di non aggiungere ritardo ai ritardi, anche rispetto ai precedenti Governi, in àmbito di Sanità, di Scuola e di Servizi Sociali, ciò che ha prodotto gli effetti nefasti che abbiamo dovuto subire e quelli economici che le fasce più deboli di popolazione stanno già subendo e subiranno ulteriormente anche nel prossimo futuro, come dichiarato nel Rapporto degli esperti governativi per la situazione economica.
Chiediamo altresì alla CEI di voler formulare al Governo la stessa richiesta, dal momento che quel paragrafo è frutto di “discriminazione indiretta”, malgrado le lodevoli intenzioni protettive che lo hanno prodotto. Ciò anche alla luce di un’immagine meno socialmente fragile delle persone con disabilità manifestata da Papa Francesco nella sua bellissima lettera di incoraggiamento al grande campione paralimpico Alex Zanardi a causa del suo gravissimo incidente.
Tale richiesta, inoltre, sarebbe certamente in linea con il forte e pluridecennale impegno dell’Ufficio Catechistico Nazionale per promuovere l’inclusione ecclesiale e sociale di tutte le persone con disabilità e del quale noi cattolici siamo sinceramente grati. La CEI ha già rivolto al Governo Italiano la richiesta dell’eliminazione dal protocollo di due condizioni di sicurezza per la riapertura delle chiese al culto e cioè quella che i sacerdoti celebranti dovessero indossare i guanti per la somministrazione dell’Eucarestia e quella che gli sposi dovessero indossare le mascherine durante la celebrazione delle nozze. Invitiamo pertanto la CEI a formulare anche questa terza richiesta relativa all’abrogazione del paragrafo concernente tutte le persone con disabilità, paragrafo che per l’eccesso di zelo mostrato ha lasciato perplessi anche molti ambienti ecclesiali, come dimostra il fatto che in nessuna chiesa le persone con disabilità sono state invitate a mettersi in “luoghi appositi”.
Ci rendiamo conto, per altro, che il problema sollevato e la pressante richiesta formulata non riguardano problemi gravissimi come quelli sanitari, economici e sociali attraversati dal Paese e dal mondo. Però è una questione di principio, quella per cui stiamo insistendo, di pari dignità e di immagine sociale delle persone con disabilità, che meritano comunque da parte di tutti la dovuta attenzione.
Si confida pertanto in una pronta risposta da parte del Governo e della CEI a questa nostra richiesta, che se non dovesse essere accolta, costringerebbe con tutta probabilità la FISH a rivolgersi al Tribunale Civile per ottenere una pronuncia ufficiale di doppia discriminazione, come persone con disabilità e come fedeli cattolici, che anche se soggettivamente non voluta, ma anzi erroneamente ritenuta come frutto di una “particolare attenzione”, oggettivamente è stata scritta in un atto pubblico ciò che, come precisa la citata Legge 67/06, è vietato e pertanto non può permanere illegittimamente.