Si uccide col gas insieme alla figlia disabile: si intitola così il trafiletto pubblicato nella sezione lombarda del sito dell’Agenzia ANSA (20 luglio 2020), che contiene la seguente notizia: «Un uomo di 74 anni si è ucciso con la figlia di 31 anni, disabile al 100%, con i gas di scarico della sua auto, parcheggiata nella loro casa di campagna a Saltrio (Varese). L’uomo, che a quanto si apprende era gravemente malato, ha lasciato un messaggio di addio alla moglie, anche lei malata grave e costretta a letto. […] Secondo i primi accertamenti dei carabinieri, l’uomo non accettava l’idea di morire, abbandonando così la figlia cieca dalla nascita» [di tale vicenda si legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
Non è la prima volta che accade, e temo non sarà l’ultima. Sono una caregiver e quando mi capita di leggere questo tipo di notizie mi ritrovo a vagare per lande di tenebra. Non c’è luce in quei luoghi e fatico ad andare avanti. Qualcuno cerca di individuare le cause remote di questi crimini – «l’isolamento, l’abbandono, l’insufficiente attenzione prolungati nel tempo…» -, ma a me sembra che si continui sempre a stare in superficie. Forse queste vicende sono solo l’espressione estrema di altre questioni irrisolte. Questioni che, a ben guardare, prima che le cause remote interrogano le relazioni, quelle tra persone con disabilità e senza disabilità, quelle tra uomini e donne.
Nel giugno scorso l’Associazione Femminile Maschile Plurale di Ravenna ha presentato l’interessante progetto intitolato Frammenti da Lea, che prevede la pubblicazione di alcuni filmati sottotitolati, della lunghezza di sei-sette minuti ciascuno, sul canale YouTube dell’Associazione stessa. In essi Lea Melandri – saggista, scrittrice e giornalista, figura tra le più significative e autorevoli del femminismo italiano – dà voce e parole a dieci incontri nella storia del femminismo. Uno di questi frammenti è dedicato al lavoro domestico e di cura, e si intitola significativamente Quel lavoro che non è un lavoro.
«Il lavoro di cura e il lavoro domestico, confusi con l’amore, con l’altruismo materno, con l’ambigua collocazione dell’essere femminile, sospeso tra sacralità e determinismo biologico, non riescono ancora ad essere visti e riconosciuti per quello che sono sempre stati: sostegno materiale e affettivo al potere e al privilegio di un sesso», osserva Melandri, constatando che l’unico lavoro riconosciuto come tale è «il lavoro produttivo associato a ricchezza, potere, successo, sviluppo, proliferazione e consumo di merci».
Mentre ascolto la sua voce, realizzo che nella maggior parte dai casi i familiari autori degli omicidi contro le persone con disabilità sono uomini (come nei femminicidi), e che l’arbitrio di disporre della vita di un’altra persona (in genere senza chiedere il parere dell’interessata) lascia intravvedere un modo di intendere alcune relazioni nel quale le altre persone sono considerate come “oggetti che si possiedono”.
Anche le caregiver donne, che oltretutto rappresentano la maggioranza dei caregiver, sperimentano in alcune circostanze situazioni molto drammatiche legate ai compiti di cura, ma è meno frequente che facciano ricorso all’omicidio/suicidio (riuscito o solo tentato), perché meno inclini a pensare alle persone di cui si curano come “oggetti propri” che si possono distruggere.
Credo che il mancato riconoscimento del lavoro di cura giochi un ruolo anche importante in vicende come quella di Saltrio, ma che da solo non sia sufficiente a dar conto di tutti i meccanismi in atto.
C’entra il fatto che ancora oggi nelle famiglie gli uomini non vengono educati a prendersi cura, e quando si ritrovano a doverlo fare possano provare un sentimento di costrizione e inadeguatezza molto maggiore di chi ha ricevuto un’educazione in tal senso.
C’entra il fatto che anche tra alcuni/e caregiver persiste ancora il pregiudizio che le persone con disabilità non siano in grado di decidere per sé e che, dunque, ci si possa sostituire a loro anche nelle decisioni di vita e di morte.
C’entrano poi quelle che potremmo chiamare “mele avvelenate” del lavoro di cura.
Una “mela avvelenata” è rappresentata dal sentirsi indispensabili. Nei casi in cui le esigenze di assistenza della persona con disabilità sono molto impegnative, diventare caregiver può voler dire comprimere o annullare molti altri aspetti della propria vita (ridurre o dismettere il lavoro retribuito; ridursi in povertà; non potersi curare; non potersi riposare a sufficienza; sopportare un notevole stress; limitare o precludersi una vita sociale extra familiare ecc.). Capita così che alcuni/e caregiver si convincano di essere insostituibili.
Il coinvolgimento emotivo nel lavoro di cura è elevatissimo, come pure l’impegno richiesto, e sentirsi indispensabili diventa una ricompensa, alimenta l’autostima. Per la persona che si sente indispensabile nessun altro o nessun’altra è all’altezza dei compiti che lei assolve, pertanto non investe con molta convinzione nell’emancipazione delle persona con disabilità, e se si trova nella condizione di non poter più prestare assistenza, può autoconvincersi che i gesti estremi siano inevitabili e siano il “male minore”. In queste situazioni solitamente le persone con disabilità non hanno alcuna voce in capitolo.
Un’altra “mela avvelenata” è il rapporto simbiotico che talvolta si instaura tra chi presta assistenza e chi la riceve. Sebbene questa situazione si verifichi più frequentemente nelle relazioni madre e figli/e, può capitare che anche altri tipi di rapporto ne siano interessati.
Esso si realizza quando le persone coinvolte nella relazione perdono la propria individualità e vivono una in funzione dell’altra. Anche in questo caso c’è un aspetto di gratificazione (sapere di essere la persona più importante nella vita di qualcuno/a è anche fonte di piacere), ma la “fusione”, impedendo alle due personalità di esprimersi e differenziarsi, finisce con l’impedire alla persona con disabilità qualsiasi spazio di autonomia dal/la caregiver.
Un’ultima “mela avvelenata” è costituita dall’elogio dello spirito di sacrificio e della disponibilità ad annullarsi. «Se ami veramente qualcuno/a sei disponibile a qualsiasi cosa, persino ad annullarti per lui/lei», potrebbe essere una delle massime di cui si nutre la retorica del sacrificio che trova nelle donne il bersaglio principale.
Può capitare (e capita) che qualche caregiver si ritrovi a dover comprimere la propria libertà sino all’annullamento, ma non è una nota di merito, né un obiettivo da perseguire per manifestare la propria nobiltà d’animo, è una violazione dei diritti umani. Non possono esserci ambiguità circa il fatto che vanno garantiti e tutelati i diritti di tutte le soggettività coinvolte nella relazione di cura, non solo quelli della persona a cui si presta assistenza.
Credo che il lavoro di cura, tutto il lavoro di cura, non solo quello svolto dai caregiver, debba essere riconosciuto come tale, e che per farlo occorra fare anche una riflessione sul rapporto tra i sessi. Ma temo che finché chi detiene ruoli di Governo (in larga maggioranza uomini) avrà la possibilità di dispensarsi dai lavori di cura, sia abbastanza improbabile che si disponga a mettere in discussione questo privilegio.
Le proposte di disciplina volte a riconoscere e a tutelare la figura del caregiver, attualmente in discussione presso l’11^ Commissione del Senato, non modificano l’impostazione familistica dell’assistenza, e non affrontano il superamento della divisione sessuale del lavoro. Accanto ai temi del riconoscimento del lavoro di cura, delle tutele, e della conciliazione tra vita e lavoro retribuito, andrebbe introdotto, con pari dignità, anche quello della sua condivisione tra i generi. Una buona norma, inoltre, dovrebbe consentire sia al/la caregiver sia alla persona con disabilità di scegliere quali aspetti della propria vita condividere, e quali delegare ad altre figure (ad esempio, gli/le assistenti personali).
A Saltrio una donna cieca di 31 anni è morta uccisa dal padre. Questa donna non ha potuto scegliere di continuare a vivere. Come caregiver le chiedo scusa e mi inchino in segno di rispetto. Possiamo liquidare questa vicenda raccontandoci che dobbiamo dare maggiori sostegni alle famiglie, oppure possiamo considerare che per una persona con disabilità la famiglia di origine non è sempre il posto più sicuro e libero in cui vivere.
Dovremmo iniziare a proporre politiche finalizzate all’emancipazione delle persone con disabilità dalle proprie famiglie già a partire dalla maggiore età. Non necessariamente in risposta a situazioni problematiche (che pure talvolta ci sono), ma più semplicemente perché anche le persone con disabilità diventano adulte a diciotto anni, e non quando muoiono i loro genitori o sono impossibilitati a prestar loro assistenza. Credo che potrebbe essere proprio questa la via maestra per evitare di ritrovarci ancora una volta a vagare per lande di tenebra.