Molti nostri fallimenti, molte relazioni mancate si devono al fatto che abbiamo preso in considerazione solo noi stessi e i nostri bisogni. Abbiamo quindi curato il nostro aspetto esteriore, il nostro modo di porci, e non ci siamo curati dell’Altro, di chi era, quali erano i suoi bisogni e di come ci avrebbe visto. Un modo di interazione “ego-centrata” che vede se stesso come un unico, come inizio e fine del rapporto, come perno su cui deve ruotare tutto e tutti.
Nei rapporti dimentichiamo troppo spesso di porre attenzione all’Altro. Perfino molti animali ci indicano l’importanza di apparire, gonfiandosi per sembrare più grossi di quello che sono in realtà. L’essere è importante al pari dell’apparire. L’abito fa il monaco! Lo sanno bene gli esperti di marketing: un colore, una forma, un sapore aumentano le vendite spesso più della qualità stessa del prodotto.
Ognuno di noi, però, da per scontato che l’Altro ci veda come noi ci vediamo o crediamo di apparire. Spesso questo nostro atteggiamento è causa di sconfitte e delusioni. Questo vale sempre e se ne ha facile riscontro nel mondo del lavoro, ad esempio nei colloqui con i rappresentanti delle imprese profit. Sono incontri infarciti di pregiudizi e stereotipi che ne condizionano lo sviluppo e gli esiti.
Il mondo della disabilità non fa eccezione e gli operatori dei vari servizi che si occupano di inserimento lavorativo dovrebbero avere coscienza di come sono vissuti e di come l’azienda vede le persone con disabilità. Infatti, quelli che per le aziende sono gli “invalidi”, i “non validi”, da sempre sono oggetto di stereotipi che nel tempo hanno ingenerato: rifiuti, paure, pietà, dipendenze, stigmatizzazioni, che ne hanno condizionato lo status sociale e il destino. Questo atteggiamento è ancora diffuso e continua a incasellare le persone in categorie e a produrre conseguenze negative per le persone coinvolte.
Gli stereotipi e i pregiudizi non possono essere corretti da disquisizioni teoriche, ma solo la conoscenza personale può ottenere un ripensamento. Quindi per promuovere il collocamento delle persone con disabilità e favorire il diffondersi di una cultura inclusiva, è necessario che i servizi sappiano cosa le aziende pensano di loro e siano in grado di utilizzare un linguaggio di mercato in uso fra gli imprenditori.
Disabilità fisiche
Si parla di persone che per varie ragioni (patologie congenite o acquisite: malattie, traumi, infortuni ecc.) hanno subito una riduzione funzionale delle potenzialità operative. Esse possono avere un’invalidità certificata e utile per il collocamento che varia dal 34 % al 100%. Le loro potenzialità occupazionali sono compromesse da un pregiudizio molto diffuso nel mondo delle imprese le quali ritengono che ad un’alta percentuale di invalidità corrisponda una maggiore difficoltà lavorativa e quindi un deficit delle capacità produttive. A fronte di problemi motòri agli arti inferiori, obiettano di norma che in ditta ci sono barriere architettoniche, che i servizi igienici non sono adeguati, che in caso di emergenza le loro possibilità di reazione e di fuga sono limitate, che hanno difficoltà a partecipare ai momenti di pausa, mensa, ecc. Se invece la disabilità limita la funzionalità del tronco e degli arti superiori, con conseguenti difficoltà manuali di tipo prensile, di sollevamento ecc., dicono che la produttività e l’idoneità alla mansione sono compromesse.
E tuttavia, nel caso delle disabilità fisiche, più che in altri casi, vale il concetto della persona giusta al posto giusto e l’ uso di tecnologie e strumenti adeguati. Queste paure si possono quindi fugare facilmente nel momento in cui l’operatore del servizio è in grado di realizzare una corretta analisi del compito/mansione, selezionare il giusto candidato e dare adeguati suggerimenti all’azienda.
Disabilità intellettive
Le persone con disabilità intellettivi sono, fra i disoccupati in cerca di lavoro, le più penalizzate. È vero che molte di loro non possono accedere a un rapporto di lavoro regolare, ma questo non giustifica l’esiguo numero di collocati. Le aziende dicono che questi lavoratori presentano difficoltà legate alle capacità di apprendimento, di gestione delle relazioni, di scarsa flessibilità e di insufficiente coscienza e attenzione al pericolo. Queste caratteristiche, però, non appartengono a tutti in egual misura e molti sono ben inseriti e produttivi alla pari degli altri lavoratori. Nonostante questo, le imprese rifiutano le persone con disabilità intellettive in quanto ritengono complesso fare apprendere i compiti previsti dalla mansione, temono che non siano in grado di svolgere correttamente il lavoro e ritengono di non poterli spostare di reparto o di ufficio in caso di necessità produttive. A tutto questo si aggiungono i timori relativi alla sicurezza, al comportamento e alla preoccupazione delle imprese verso quella che definiscono un’eccessiva invadenza delle famiglie, delle associazioni impegnate sul fronte della disabilità e dei sindacati.
Purtroppo bisogna concludere con l’amara constatazione che lo stereotipo dell’“handicappato incapace” è oramai ampiamente diffuso nel mondo imprenditoriale ed è la principale causa del basso tasso di occupazione di questa categoria di disabilità. I tutor dei servizi sanno che un corretto inserimento mirato e adeguati supporti educativi e tecnici potrebbero fugare queste paure e rendere produttive le persone con disabilità intellettive, ma non sono in grado di proporne la candidatura alle aziende soggette agli obblighi di legge.
Disabilità psichiche
Questa è la categoria di persone con disabilità più esposta a pregiudizi, stereotipi e stigmatizzazioni. La Legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili) le accomuna ai disabili intellettivi sotto la classificazione di “disabili psichici”, creando spesso difficoltà di interpretazione e di comunicazione.
Le persone con patologie psichiatriche sono esposte all’imponderabilità del decorso della malattia e questo complica, e spesso preclude, la possibilità di un collocamento. Le aziende, fatte rare eccezioni, rifiutano qualsiasi proposta di inserimento. Lo stigma sociale – quotidianamente rafforzato dai mass-media e dalle esperienze dirette o indirette delle aziende – ha portato gli imprenditori a una netta chiusura verso queste persone, con argomentazioni che si rifanno al fatto che hanno comportamenti non adeguati a un contesto lavorativo, che i colleghi di lavoro non li accettano e che è difficile rapportarsi con loro. A questo si aggiunge un’aneddotica spesso sgradevole sul sentito dire.
Purtroppo la responsabilità di questa situazione non è da attribuire unicamente al mondo imprenditoriale, ma a tutti i servizi che non hanno saputo promuovere una cultura inclusiva adeguata ad offrire un efficace supporto alle aziende. Ora le imprese pubbliche e private sono impermeabili a qualsiasi ripensamento. È quindi necessario un radicale cambiamento delle politiche attive e una diversa modalità di accompagnamento al lavoro, altrimenti questa categoria di persone con disabilità sarà sempre più esposta a un rischio di disoccupazione perenne e a una progressiva emarginazione.
Disabilità uditive
Qui si parla di persone colpite da sordità dalla nascita o prima dell’apprendimento dell’uso della parola. La Legge 68/99 le accomuna alle altre categorie di invalidità civile.
Le persone ipoacusiche o sorde, pur avendo un ottimo potenziale lavorativo, sono troppo spesso penalizzate dai pregiudizi delle aziende e da mediatori incapaci di supportali nella ricerca e nell’inserimento lavorativo. Le loro abilità fisiche e intellettive, la loro caparbietà caratteriale e il loro impegno dovrebbero includerli nella categoria dei “disabili-abili” e tuttavia sono perennemente in difficoltà ad essere collocati. Le aziende, infatti, non adeguatamente informate, ritengono che il loro inserimento sia problematico in quanto: è difficile spiegare i compiti previsti dalla mansione; incontrano difficoltà di comunicazione con i colleghi, e quindi rinunciano a chiedere spiegazioni e provvedono autonomamente mettendo a rischio l’esito del compito; infine, non reagiscono prontamente alle situazione di pericolo, creando problemi di sicurezza per sé e per gli altri. Tutti problemi, questi, che potrebbero essere facilmente superati, se vi fosse un mediatore opportunamente preparato.
Disabilità visive
Qui, infine, ci si occupa delle persone con cecità o che abbiano un residuo visivo non superiore ad un decimo ad entrambi gli occhi.
Le persone cieche hanno avuto in passato quote di riserva di posti di lavoro e disponibilità di mansioni specifiche, con le norme in materia che prevedevano il diritto ad essere assunti come centralinisti o come masso-fisioterapisti in imprese pubbliche e private. L’evoluzione del mondo del lavoro e della tecnologia hanno soppresso queste figure professionali e tuttavia sono nate nuove possibilità occupazionali adatte a loro, ma scarsamente utilizzate e conosciute dai servizi e dai soggetti sociali interessati al loro collocamento.
A questa mancata conoscenza delle mansioni adatte e disponibili, si accompagna la storica diffidenza degli imprenditori, che si trincerano dietro l’assenza di mansioni e tecnologie adeguate per poterli accogliere. Paventano inoltre il rischio infortunistico dovuto all’inadeguatezza dell’ambiente di lavoro, poco sicuro per persone con deficit sensoriali.
Non c’è una disponibilità a priori delle imprese ad assumere lavoratori con disabilità, solo l’obbligo, infatti, le costringe ad occuparsi di loro. Dopo di che spetta ai servizi farli conoscere per quello che sono e per quello che possono dare. Solo l’esperienza diretta, il vederli lavorare, può abbattere i pregiudizi e gli stereotipi che li accompagnano.
Questo compito spettava al collocamento e ai servizi territoriali, ma purtroppo i cosiddetti “passeur” della disabilità non hanno alcuna competenza di marketing e non sono in grado di utilizzare il linguaggio degli imprenditori. Questo fa sì che pregiudizi e stereotipi continuino ad essere l’unica fonte di conoscenza per le imprese e che centinaia di migliaia di disoccupati rimangano perennemente iscritti nelle liste del Collocamento Disabili.