Ogni volta, di fronte a una tragedia immane individuale, familiare e sociale in cui un genitore uccide il figlio o la figlia con disabilità grave o gravissima, una certa parte del giornalismo avanza titoli ed espressioni quali «quando uccidere la figlia disabile è l’unica opzione», «il fucile da caccia è la scelta estrema del Dopo di Noi», «atto d’amore» e via dicendo.
Ogni volta – come è accaduto lo scorso 20 luglio [se ne legga anche sulle nostre pagine, N.d.R.] -, non riesco proprio a tacere, manifestando sdegno per una narrazione di questo tipo (che, purtroppo, sembra essere quella nettamente predominante), una “narrazione tossica” in cui scompare completamente la figura del figlio o della figlia, soggetto senza volto, oggettificato, reso completamente invisibile: nominato una sola volta, spesso senza che gli venga attribuito neppure un nome, scompare inghiottito dalla gravità della sua disabilità; una narrazione completamente incentrata sulla figura del caregiver, col quale si empatizza, derubricando perfino a “gesto d’amore” un atto di disperazione massima, che è certamente il portato di un disagio psichico terribile che ha come concausa l’inqualificabile abbandono morale e materiale in cui spesso versano le persone con disabilità e le loro famiglie per vergognosa assenza delle Istituzioni, ma che è e resta un omicidio, nel senso più “puro” del termine: il “cagionare la morte di un essere umano”.
A fronte di queste mie riflessioni, mi viene puntualmente detto che – non essendo io persona con disabilità né caregiver -, non posso comprendere appieno, che non posso stigmatizzare il pezzo di un giornalista che scrive dell’uccisione di un figlio come di «unica via» o «atto d’amore», se quel giornalista è – oltre che autore dell’articolo – padre di un figlio con autismo, che non posso provare sconcerto dinanzi alla naturalezza con cui una madre commenta l’articolo con un «capisco benissimo, lo farei anch’io», che la narrazione poco o nulla conta di fronte ai contenuti, ed altri argomenti di questo tenore.
Non sono d’accordo. Penso che una narrazione di questo tipo sia discriminatoria e lesiva della dignità e dell’identità personale delle vittime. Penso che i medesimi contenuti possano essere raccontati, denunciati, rivendicati con la medesima forza ed efficacia, ma altrimenti, da una prospettiva differente e attribuendo doverosamente un volto anche alle vittime – rese invece, al contrario, (s)oggetti invisibili.
Penso che una “narrazione tossica” – specie su argomenti di questa portata – possa produrre, se martellante, se atterra su persone già profondamente fragili e piegate da drammi familiari, conseguenze anche molto gravi. Conseguenze sia a livello dei singoli casi concreti, sia a livello collettivo, della narrazione abilista della disabilità nel dibattito pubblico: stiamo così in fondo dicendo che, piuttosto che una vita oltre i genitori, piuttosto che una vita che rischia di essere vissuta nell’abbandono, per una persona con disabilità grave o gravissima è meglio la morte, anzi, l’essere fatta morire.
E allora, se portiamo questa narrazione alle estreme conseguenze, quando cioè osiamo cominciare noi a prendere la matita in mano e a tracciare linee di confine, dove lo tracciamo il confine tra “atto d’amore” e barbiturici diluiti nel succo di frutta “in his/her best interest” [“nel suo migliore interesse”, N.d.R.]?
Ad ogni modo, memore dell’obiezione che mi viene spesso mossa, per cui deve parlare solo chi sperimenta, concludo la mia riflessione e vi lascio di seguito con la profondità delle parole – relative ad un fatto di cronaca accaduto l’anno scorso – di Elena Paolini, donna con disabilità, attivista e formatrice sui diritti umani delle persone con disabilità, oltreché co-fondatrice del blog Witty Wheels: «Non voglio scrivere cose inutili sulla donna che il 6 settembre [nel 2018, N.d.R.] ha ucciso i suoi figli disabili in provincia di Cagliari. Al contempo ogni volta che leggo un articolo sulla vicenda mi viene il mal di stomaco, non solo per la vicenda in sé ma anche per il modo in cui se ne parla. E poi è difficile, perché essendo disabile mi identifico con la parte uccisa. La parte immobile sul letto che vede arrivare la propria madre con un fucile da caccia.
Ma volevo parlare del fatto che nella cronaca non si parla a sufficienza delle vittime, dei figli. Sappiamo a malapena i loro nomi, raramente compare anche il cognome. Non si sa che cosa facessero nella vita: ma certo, i disabili fanno i disabili. Non hanno vita, relazioni, scopi, obiettivi, lavoro: vivono solo in quanto “peso” per i loro caregiver. O almeno traspare questo da degli articoli di giornale in cui veniamo a sapere che Angela Manca, di anni sessantaquattro, madre amorevole, dedita e eroica, ha ucciso tragicamente i suoi figli che amava tanto.
Sono abbastanza ignorante sul burn out e sulle sue conseguenze. Non dubito che la madre avesse un carico di lavoro extra: ho letto varie cose sul fatto che i due uomini avessero un po’ di assistenza da parte dei servizi, ma so che sicuramente non era tutta quella necessaria. Non dubito che la madre fosse preoccupata per il futuro dei suoi figli. Ma tutto questo giustifica il fatto che tutto ciò su cui la cronaca si concentra siano la disperazione e la fatica della donna?
Quelle che conosco bene, comunque, sono alcune dinamiche sociali. Gli omicidi da parte dei cosiddetti caregiver delle persone disabili sono tutto sommato piuttosto frequenti, ma fanno poco scalpore: chi uccide viene costantemente giustificato e sconta pene minori, sostanzialmente perché, si sa, la vita delle persone disabili vale di meno. Succede anche in altri paesi dove i servizi ci sono, dove non c’è la “giustificazione” del troppo carico di lavoro.
I caregiver sono una categoria molto influenzata dall’abilismo della società. Subiscono tutte le discriminazioni finché il figlio è piccolo, spesso anche dopo. Si vedono martellare che i loro figli valgono meno degli altri. Vedono che ai loro figli non vengono date le stesse opportunità. Vivono l’odio rivolto ai propri figli, magari vorrebbero schermarlo, ma non sempre ce la fanno. È sicuramente una cosa che corrode e influenza.
Vorrei sapere se un ipotetico omicidio dei figli piccoli non disabili di un padre povero che si spacca la schiena per portare il cibo in tavola e che a un certo punto gli spara passerebbe lo stesso sulla cronaca senza troppa empatia verso i figli uccisi.
Non ho letto nulla che empatizzi con l’oppressione dei figli costretti a dipendere dalla madre a quarant’anni. Non so neanche che faccia hanno. I due uomini sono descritti esclusivamente nei loro bisogni assistenziali, come se si desse per scontato che non facessero niente nella vita. Sono disumanizzati.
Se c’è un articolo che parla di loro – al di là di espressioni come “grave disabilità” -, per favore mandatemelo, perché io non l’ho trovato.
Dal giornalismo spicciolo su questa vicenda sembra quasi che la vittima – quella veramente da compatire – sia solo la madre. Ed una vittima lo è. Lo è perché è stata costretta ad assistere i figli per molto tempo a causa di uno Stato abbastanza assente. Ma questo non giustifica il fatto che abbia deciso della vita di altri due individui. Onestamente non vedo paura del futuro o fatica nella cura dei figli che renda preferibile la loro morte.
Mi pare di leggere gli articoli di cronaca stucchevoli e fuorvianti sul femminicidio: c’è un’inquietante somiglianza.
Così la mamma era “eroica”, la famiglia “buona”, i figli “angeli” (insomma, già più di là che di qua anche da vivi). E la madre “quanto ha patito…!”. Sì, e quanto hanno patito Paolo e Claudio Calledda a dipendere dalla propria madre fino a quarant’anni, a venire quasi uccisi nel 2015 con un’overdose di farmaci, e venire finiti da un colpo di fucile senza poter fuggire. [Elena]».