Non avrei voluto tornare sul tema dei/delle caregiver che uccidono le persone con disabilità di cui dovrebbero curarsi. Mi pesa molto doverlo fare. Ma c’è stato un nuovo caso qualche giorno fa a Napoli, ed esso è stato ancora una volta accompagnato da un’interpretazione che massimizza la disperazione di chi compie il crimine e minimizza, o non vede proprio, il danno per gli uomini e le donne con disabilità che ne sono vittime. Da caregiver non posso condividere questa lettura, e temo che essa possa incoraggiare l’emulazione di questi gesti.
Partiamo dai fatti, o sarebbe meglio dire dalle cronache riportate nei siti dei giornali. Uccide un figlio e ferisce l’altro nel sonno: tragedia nella notte a Napoli, è il titolo dell’articolo pubblicato sul sito del «Mattino» (cronaca di Napoli), il 30 agosto scorso.
Stando all’articolo, Giuseppe P., di 88 anni, pensionato, ha tentato di uccidere nel sonno i suoi due figli con disabilità sparando loro con una pistola illegalmente posseduta. Il fatto è avvenuto nel quartiere di Soccavo, alla periferia di Napoli. Il figlio più piccolo, 47 anni, interessato da una grave disabilità mentale e con necessità di assistenza continua, è stato colpito alla testa ed è morto sul colpo. L’altro, di 51 anni, con una disabilità lieve, ha riportato qualche ferita al braccio e non sarebbe in pericolo di vita.
Ai poliziotti intervenuti «il pensionato raccontava con frasi sconnesse la sua disperazione per le sofferenze e il futuro dei figli». Pare che il lockdown avesse accresciuto le difficoltà della famiglia. Al momento dei fatti anche la moglie dell’omicida (77 anni) era presente in casa. Questa, stando all’articolo del «Mattino», dormiva e non è stata svegliata dal marito quando, in piena notte, si è recato nella camera dei figli per ucciderli.
Diversa è la narrazione fornita nel sito del «Secolo XIX». Spara ai figli disabili: “Ormai ho 88 anni e nessuno mi aiuta”, titola il pezzo pubblicato il 30 agosto, a firma di Grazia Longo. Qui sono forniti sia il nome completo del padre omicida (Giuseppe Pecora), che dei figli, Ivan, quello minore rimasto ucciso, e Francesco, quello maggiore scampato all’agguato. In questa versione pare che Pecora abbia sparato anche alla moglie (alla quale sono attribuiti 75 anni), che però è rimasta illesa. Entrambe le fonti inquadrano la vicenda come una storia di abbandono e di assistenza mancata.
Stessa lettura danno anche diversi caregiver che, a proposito di tale gesto, parlano dell’omicidio come «dell’unica soluzione possibile per il figlio disabile», e come «dell’ultimo e più disperato atto d’amore verso un figlio cresciuto con lacrime e sudore».
Vi è anche un altro elemento, la deresponsabilizzazione: l’omicidio è stato compiuto con la convinzione che i servizi di assistenza pubblici siano di una qualità così scadente da comportare la perdita di dignità dei figli con disabilità che fossero sopravvissuti al genitore anziano; pertanto la responsabilità del gesto, quanto meno quella politica, sarebbe da attribuire allo Stato assente, o comunque incapace di fornire servizi di assistenza rispettosi della dignità umana.
Provo a riflettere sugli elementi esposti. Possiamo ipotizzare che la situazione di Ivan, essendo egli una persona con disabilità mentale grave, richiedesse maggiore impegno di cura, e che questa circostanza potesse essere fonte di grande preoccupazione per suo padre. Ma allora per quale motivo Pecora ha tentato di uccidere anche Francesco, che invece ha una disabilità lieve, e avrebbe potuto cavarsela benissimo anche senza di lui?
Altra questione, nessuna persona, e dunque neppure un/a caregiver, può disporre della vita altrui senza il consenso della persona interessata. Pecora ha chiesto ai suoi figli se preferivano vivere o morire? Non sembrerebbe: ha agito a loro insaputa, cogliendoli di sorpresa nel sonno. Quanto conta, per Pecora e per chi manifesta comprensione per il suo gesto, il parere delle persone con disabilità esposte alla furia omicida di chi dovrebbe garantire loro sicurezza? Forse Ivan non era in grado di decidere, ma Francesco molto probabilmente sì, non fa nessuna differenza? Un omicidio vale l’altro? E se una persona non è in grado di esprimersi su qualcosa, chi e cosa ci autorizza a pensare che voglia morire? Non sarebbe più plausibile pensare che invece preferisca vivere? E come dovremmo valutare un crimine commesso ai danni di chi ha oggettivamente minori possibilità di difendersi? Se poi, come riferisce l’articolo di Grazia Longo, Pecora ha davvero tentato di uccidere anche la moglie, dobbiamo intendere anche questo gesto come «unica soluzione possibile» e «atto d’amore» che ha come “mandante” uno Stato assente? E ancora, supponiamo che le preoccupazioni di Pecora siano fondate, che la situazione dei servizi di assistenza delle persone con disabilità sia tale da suscitare una legittima disperazione, ma una disperazione legittima renderebbe legittimi anche uno o più omicidi? Ogni persona legittimamente disperata può uccidere chi le pare? Oppure esiste uno “statuto speciale” che legittima gli omicidi solo se compiuti a danno di una o più persone con disabilità?
C’è infine un altro aspetto che nessuno/a sembra voler vedere. Si è fatto caso che i caregiver sono in larga maggioranza donne, mentre quelli che uccidono (o tendano di uccidere) le persone di cui si curano sono in larga maggioranza uomini? A tal proposito, in un precedente testo, pubblicato su queste stesse pagine, avevo proposto l’esito di di una ricerca in rete sui casi di omicidio (tentato o riuscito) ai danni di persone con disabilità computi nel periodo 2011-2020, e ne avevo individuati venticinque: 19 compiuti da uomini (a questo punto saliti a 20), e 6 da donne. Non ci sono dunque tutti gli elementi per ipotizzare che anche questi gesti si collochino nell’àmbito di quel tristissimo fenomeno noto come “violenza maschile”?
Ho conosciuto molte e molti caregiver consumati e svuotati dal lavoro di cura. Donne e uomini lasciate/i sole/i, e abbandonate/i a se stesse/i. E non ho alcuna difficoltà a riconoscere e ad esprimere solidarietà per le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere e ad operare. La battaglia per il loro/mio riconoscimento e la loro/mia tutela è sacrosanta. Da caregiver anch’io la sostengo. Ciò che proprio non posso e non voglio fare è minimizzare o giustificare gli omicidi. I/le caregiver non hanno licenza di uccidere, e sarebbe ora di smettere di insinuare il contrario.
Ho qui sotto mano una copia della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Devo decidere se appenderla al muro perché tutte e tutti possano sapere della sua esistenza, o avvolgerci il pesce? Credo che la incornicerò. Alla fine, con le cose come con le persone, è sempre una questione di scelte.