Riceviamo e ben volentieri pubblichiamo il seguente contributo da Guido Trinchieri, presidente dell’UFHA (Unione Famiglie Handicappati), che insieme alla moglie Daniela, entrambi settantenni, si prende cura dei figli Emilio e Daniele, persone con gravi disabilità intellettive, fisiche e relazionali, da 43 e da 37 anni. «Stanchi? – scrivono – Sì! Consumati e svuotati dal lavoro di cura? No! Piuttosto delusi dagli scarsi risultati di quarant’anni di lotte».
Leggo su «Superando.it» l’articolo di Simona Lancioni relativo all’ennesima tragedia che a Napoli sconvolge una famiglia che si prende cura di figli con disabilità [si legga “Non si possono mai minimizzare o giustificare gli omicidi”, N.d.R.]. Alla trama, al filo rosso che unisce Regioni diverse e le più diverse realtà sociali ed economiche, si aggiunge un ulteriore drammatico nodo.
Un tonfo al cuore per chi conosce e ha vissuto, come l’UFHA, la tragedia di soci che l’hanno costretta da tempo a superare, anche nel dibattito pubblico, la riluttanza connessa ad un argomento delicato… che ci colpisce nel profondo.
Troppo spesso i mezzi di informazione, quei pochi che ancora dedicano a questo argomento qualche trafiletto, lo trattano con superficialità e con quella spolverata di pietismo che tanto piace ad un certo pubblico. Tutto questo né ci scandalizza né ci meraviglia, è nella logica di mezzi di informazione che hanno rinunciato a suscitare il dibattito che forma l’“opinione”, limitandosi a registrare l’opinione dei più, nella logica mercantilistica della ricerca del consenso, del compiacimento, del tornaconto…
Ci lascia invece molto perplessi l’atteggiamento del mondo della disabilità che incomprensibilmente, su questo argomento, continua ad oscillare fra un assordante silenzio, l’inerzia totale e commenti che hanno a che vedere con la filosofia, con l’etica… con l’ideologia, ma non con la rivendicazione dei diritti che discendono dall’attuazione delle politiche che le leggi della Repubblica Italiana hanno mirabilmente tracciato.
Per tornare all’articolo citato, dobbiamo sgomberare il campo da ogni equivoco: veniamo da quella scuola, abbandonata e negletta, per la quale la vita, ogni vita, è sacra e inviolabile, ma equivale a perdere la rotta di un ragionamento costruttivo, se dovessimo affrontare il tema sul piano degli interrogativi posti dall’articolo: «Nessuna persona – vi si scrive -, e dunque neppure un/a caregiver, può disporre della vita altrui senza il consenso della persona interessata. Pecora ha chiesto ai suoi figli se preferivano vivere o morire? Non sembrerebbe: ha agito a loro insaputa, cogliendoli di sorpresa nel sonno. Quanto conta, per Pecora e per chi manifesta comprensione per il suo gesto, il parere delle persone con disabilità esposte alla furia omicida di chi dovrebbe garantire loro sicurezza? Forse Ivan non era in grado di decidere, ma Francesco molto probabilmente sì, non fa nessuna differenza? Un omicidio vale l’altro? E se una persona non è in grado di esprimersi su qualcosa, chi e cosa ci autorizza a pensare che voglia morire? Non sarebbe più plausibile pensare che invece preferisca vivere? E come dovremmo valutare un crimine commesso ai danni di chi ha oggettivamente minori possibilità di difendersi?».
Ciascuno può affrontare, se lo ritiene utile, i temi posti secondo la propria cultura e le proprie convinzioni; per noi, solo per chiudere il cerchio, valgono le quattro righe della premessa.
Discettare sulla qualità, quantità e modalità della disperazione altrui ci sembra quanto meno indelicato, pretenzioso… e un tantino superficiale, almeno quanto l’interpretazione grossolana di statistiche d’accatto: «Non ci sono dunque tutti gli elementi per ipotizzare che anche questi gesti si collochino nell’àmbito di quel tristissimo fenomeno noto come “violenza maschile”?». No! non ci sono! Non ce n’è nulla da ipotizzare! Almeno questa ciliegina su una torta già indigesta poteva esserci evitata.
«Non avrei voluto tornare sul tema dei/delle caregiver che uccidono…», scrive ancora Lancioni: No! Ancora un no… ci dobbiamo tornare certamente, ma in modo molto diverso!
Ce lo indica, con grande onestà intellettuale il presidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) Vincenzo Falabella, a commento di un caso analogo, in un comunicato stampa del luglio scorso, ripreso anche da «Superando.it» [a questo link, N.d.R.] che ritengo valga la pena riportare integralmente: «Morti bianche del welfare: un altro caso. Un uomo di 74 anni si è ucciso con la figlia di 31 anni con grave disabilità, con i gas di scarico della sua auto, parcheggiata nella loro casa di campagna a Saltrio (Varese). L’uomo, che a quanto si apprende era gravemente malato, ha lasciato un messaggio di addio alla moglie, anche lei malata grave e costretta a letto. Un altro caso che probabilmente verrà annoverato e archiviato nell’assolutoria categoria dei personali e ineluttabili drammi della disperazione. “Ne abbiamo contati troppi, negli anni, e la tendenza sembra non diminuire. Non diminuisce quella tragica contabilità – commenta Vincenzo Falabella, presidente della FISH -. Oltre al cordoglio alla famiglia, dobbiamo esprimere ancora rabbia per le ennesime morti bianche che hanno tutti i tratti comuni con moltissime altre drammatiche vicende. Non è vero che non esistono colpe e colpevoli. L’isolamento, l’abbandono, l’insufficiente attenzione prolungati nel tempo sono le cause remote e spesso ultime di queste vicende. Senza decise politiche di sostegno alle famiglie questi fatti continueranno a ripetersi. È ora forse anche di verificare l’effettiva applicazione e la reale efficacia di norme approvate dal Parlamento Italiano – e ci riferiamo alla legge sul “Dopo di Noi” – per comprendere quanto realmente sia giunto a supportare singoli e famiglie e quanto invece sia finito a sostenere altro, altri e operazioni di restyling dei soliti noti. Al Parlamento il compito di monitorare e analizzare dati, cifre e storie e agire di conseguenza, correggendo la rotta e rimettendo al centro le persone più fragili e non i comitati d’affari comunque siano denominati».
A questo punto un’annotazione sulla Legge sul “Dopo di Noi” [Legge 112/16, N.d.R.] è doverosa.
È opportuno ricordare che essa nasce, stimolata da uno dei tanti fatti “di cronaca”, come intervento di emergenza che – con sintesi brutale, ma efficace – si diceva avrebbe dovuto “disarmare la mano dei genitori” e prevenire gli orrori di cui ci stiamo occupando. Nel percorso parlamentare è diventata altra cosa: la citatissima Legge 112, che non solo ha mancato il suo scopo iniziale, ma si è prestata a mistificazioni e interpretazioni di comodo che non possiamo pensare siano figlie di ingenuità.
Il “Dopo di Noi”, in conseguenza della modifica del Titolo V della Costituzione, è di competenza delle Regioni, che però si limitano a far finta che una Legge dello Stato, dotata di finanziamenti ridicoli, sia la soluzione al problema! Non prendendo in alcuna considerazione soluzioni alternative e/o integrative di propria competenza, che portino a situazioni solidaristiche ed universalistiche: democratiche in una parola.
Con il presidente della FISH Falabella siamo convinti che «non è vero che non esistono colpe e colpevoli», e non pensiamo solo alla politica: questa affermazione deve interrogare infatti anche tutti quelli, fra di noi, che hanno funzioni di rappresentanza e di rivendicazione di diritti non di rado asserviti ad interessi di bottega.
Attendiamo dalle Pubbliche Amministrazioni, ma anche dalle nostre organizzazioni, un cambio di paradigma, che porti a sgomberare il campo dalle mistificazioni e ridiscuta con lealtà e concretezza soluzioni, peraltro già ipotizzate, sostenibili anche economicamente.
Una soluzione a questo problema sarebbe un sostegno non da poco per le persone che si prendono cura delle persone con disabilità, chiamiamole pure” caregiver” se si vuole.