È scomparso nei giorni scorsi Enrico Montobbio, vero pioniere dell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità intellettiva, che in tale àmbito maturò sin dagli Anni Settanta una serie di esperienze ritenute “maestre” nell’ASL 3 di Genova. Ne affidiamo il ricordo al pedagogista e formatore Mario Paolini, riprendendo, per gentile concessione, quanto pubblicato nel sito del Gruppo Solidarietà. Nel box in calce, invece, riportiamo un ampio brano, dedicato all’esperienza genovese condotta da Montobbio, tratto dal testo Il lavoro come proseguimento dell’integrazione scolastica: il caso dell’autismo, pubblicato nel 2005 da Daniela Mariani Cerati, già dirigente medico del Servizio Sanitario Nazionale e segretaria del Comitato Scientifico dell’ANGSA (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici).
È difficile scrivere di Enrico Montobbio sapendo ma non accettando bene il fatto che non c’è più. Sapevamoche non stava bene, sapevamo che negli ultimi mesi era peggiorato, ma era ancora qui. Lui che ha ricevuto in vita dalla sua città il Grifo d’argento, ora potrà avere anche quello d’oro, che viene dato solo alla memoria.
Ciao Enrico, le pagine che ci hai lasciato sono dense di idee, pensieri, tentativi. I ricordi sono anche altro, come il tuo pugno chiuso a salutare sorridendo quando ti diedero il Grifo, come si vede nella foto qui accanto.
Sono tempi scomodi per parlare di un pugno chiuso, ma penso che varrebbe la pena lo stesso di farlo, perché se non ci fosse stata la spinta di civismo del movimento operaio a Genova a sostenere la lotta per acquisire il diritto al lavoro per le persone fragili, per le persone con disabilità, oggi non ci sarebbe la Legge 68/99, anche se molti non sanno nemmeno cos’è.
Quello che voi avete fatto non era solo razionalità e non era solo pragmatismo, era anche passione che ha cambiato un modo di pensare: a chi resta, se ci crede, spetta il lavoro quotidiano di continuare a nutrire il cambiamento.
Sono state scritte diverse cose, da te e dai tuoi collaboratori, ma solo dopo averle fatte, non prima e questo lo sanno e spero lo dirà chi c’era, come Carlo Lepri e tanti altri.
I tuoi piccoli libri, scritti sempre a più mani e già questo è un esempio, restano pagine da sfogliare, da studiare, da condividere, da imprestare, qualche volta da regalare o lasciare andare per ricomprarseli poi. I poeti, sempre citati con gentilezza nei tuoi libri e nei tuoi incontri, sono una cifra di stile per alzare lo sguardo dal particolare al tutto, ma rimanendo sempre attento a quei particolari che facevanosì che il racconto della storia di una persona fosse una storia piena.
Lavoro e fasce deboli. Strategie e metodi per l’inserimento lavorativo di persone con difficoltà cliniche e sociali resta un libro che crea il cambiamento. Non riesco a pensare a quanti bravi operatori nella mediazione verso il lavoro quel libro e il pensiero che ci sta dietro abbia dato qualcosa di importante.
La casa senza specchi. Esperienze di integrazione lavorativa del disabile resta un pugno nello stomaco per parlare di qualcosa che non ha tempo per mutare, perché il tempo si azzera ogni volta che succede a qualcuno di avere un figlio gettato nel mondo dal lancio di dadi del computer di Dio con le caratteristiche di qualcosa di differente (scusa Enrico, ti ho citato a memoria e non ho voglia di cercare la pagina per trovare le parole esatte), ma resta e resterà qualcosa di cui avere profondo rispetto e considerazione, se non si vuole sbagliare tutto.
Il falso sé nell’handicap mentale. L’identità difficile fu un altro libro futurista, e oggi dovrebbe essere alla base del lavoro degli insegnanti che si occupano di far crescere ragazzi con disabilità, di educatori che ne raccolgano il testimone nel governare le fasi successive dell’ingresso nell’adultità.
Ma a me, perché te lo chiesi e me lo dicesti, resta al primo posto tra i tuoi insegnamenti la ricerca dell’alleanza educativa. Sempre difficile, a volte quasi impossibile, ma sempre necessaria. Non capire questo, non lavorare ogni giorno su questo, è una rinuncia di ruolo e un arretramento rispetto alla cultura del sopruso, dell’ineguaglianza, della violenza, facili materie da apprendere quest’ultime, in un clima favorente. Ci proverò, Enrico, perché penso che è proprio così e perché quello è il metro per misurare molte cose, la giustizia, la passione, il senso.
La prima volta che ci incontrammo fu a Mestre, ti avevo invitato a presentare il tuo libro Prova in altro modo: l’inserimento lavorativo socio assistenziale di persone con disabilità marcata, ma quasi tutto l’incontro, pieno di educatori, fu dedicato allo scandalo di una frase detta e maldigerita da tanti ancora oggi: gli educatori per sentirsi tali hanno bisogno che i disabili restino tali per sempre. Apriti cielo.
Chi sarei se potessi essere. La condizione adulta del disabile mentale è un libro da rileggere spesso, per il piacere di farlo prima, ma poi perché ti aiuta in quel che fai. Uno dei libri più belli che conosco per chi voglia comprendere il lavoro con le differenze, ma anche un libro scomodo, perché mette in trasparenza i buonismi e li demolisce in poche righe argomentate.
Prova in altro modo è stato il tuo ultimo lavoro compiuto, un sussidiario di parole da studiare. È in quel libro, Enrico, che ho incontrato il tema dell’alleanza educativa di cui da allora non smetto di occuparmi, ritenendolo importante, e mi scusino tutti quelli che potrebbero citare altri libri e altri autori che se ne occuparono prima e forse meglio: non sto facendo una tesi, ma un omaggio a un amico-maestro.
Le storie raccontate sono uno stile di cui nutrire chi continua a perdere, e a far perdere a tutti, vicende che varrebbe la pena di raccontare. Anche senza la pretesa di essere letteratura, ma sicuramente privilegiando la ricchezza e l’unicità di storie che raccontano dettagli di vita di persone che non fanno la storia.
Spero che tu abbia un campo da tennis dove andrai, e che la palla che lanci sia per noi la molla per correrle dietro, senza alibi, senza pigrizia. Grazie.
Pedagogista e formatore. Il presente contributo è già apparso nel sito del Gruppo Solidarietà e viene qui ripreso per gentile concessione.
Il gruppo genovese di Enrico Montobbio*
Fin dagli Anni Settanta, in concomitanza con le leggi sull’integrazione scolastica, il gruppo genovese di Enrico Montobbio, poi affiancato da Carlo Lepri, iniziò un’opera di integrazione lavorativa dei disabili intellettivi.
Nel 1976 vi si costituì il primo SIL (Servizio Inserimento Lavorativo) e venne istituita la figura dell’operatore della mediazione al lavoro, del tutto analoga al job coach dell’esperienza statunitense.
Si perseguì quindi un progetto di mediazione al lavoro, con l’inserimento in posti di lavoro pubblici di disabili intellettivi che prima frequentavano dei laboratori protetti. Le prime trenta esperienze si conclusero addirittura con l’assunzione e in generale i risultati furono superiori alle attese, rilevando importanti apprendimenti nella sfera cognitiva e una maturazione nella struttura della personalità. Questi cambiamenti risultavano più evidenti e più rapidi di quelli prodotti dai laboratori protetti.
Questo primo successo incoraggiò i suoi promotori ad estendere l’esperienza a fasce di disabili via via più gravi per cui, qualche anno dopo, si giunse al progetto ILSA, acronimo che significava “Inserimento Lavorativo Socio Abilitativo”, per realizzare il quale il Comune di Genova approvò, il 28 dicembre 1982, la Delibera Inserimenti in settori operativi del Comune di Genova di Handicappati psichici in posizione di non lavoratori.
Il gruppo genovese ebbe una parte importante nell’ispirare e favorire l’ottima Legge 68 del 12 marzo 1999, che ha segnato un notevole progresso nel favorire l’accesso dei disabili al lavoro, non affrontando però la tematica del lavoro in funzione puramente abilitativa per soggetti incapaci di diventare produttivi, quelli per i quali Montobbio aveva coniato il termine di “non lavoratori”.
*Brano tratto dal testo Il lavoro come proseguimento dell’integrazione scolastica: il caso dell’autismo, pubblicato nel 2005 da Daniela Mariani Cerati, già dirigente medico del Servizio Sanitario Nazionale e segretaria del Comitato Scientifico dell’ANGSA (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici). Viene qui ripreso, per gentile concessione, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore.
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