Le ataviche contraddizioni presenti nel Bel Paese oggi più che mai si riverberano in ogni istituzione scolastica e sono sotto gli occhi di tutti ma si dice che va tutto bene, che meglio di così non si può fare, si sostiene che chi sta a capo del Dicastero della Pubblica Istruzione non avrebbe potuto fare di meglio.
La paura del confronto dialettico e democratico sta prendendo il sopravvento. Si assiste così all’esercizio di una palese ascesa del narcisismo individuale che viene trasmesso dall’alto verso il basso. Ma a cascata cosa succede? La paura di incappare in procedimenti penali, comporta che i Dirigenti Scolastici facciano di tutto affinché regolamenti e procedure possano essere avallati, ovvero approvati in tutta fretta, dagli organi collegiali (Consiglio di Istituto e Collegio Docenti).
Di fatto non viene neppure ipotizzata la possibilità che vi sia un confronto-dibattito, così come previsto dai Decreti Delegati del 1974, in quanto c’è già stato lo staff del Dirigente Scolastico e/o la Commissione specifica – a mo’ di task force – ad avere pensato al da farsi… l’importante è che il Dirigente Scolastico si autotuteli ovvero si metta al riparo da potenziali denunce e/o esposti (se si prova a evidenziare che forse metodologicamente non è corretto; che sarebbe utile riflettere e parlare alla pari; che mentre si pensa agli aspetti procedurali, non bisogna dimenticarsi delle persone-studenti, si viene tacciati non solo di fare ostruzionismo, ma anche di voler far perdere tempo).
È da queste due espressioni ostruzionismo e perdita di tempo, che voglio incentrare una sintetica riflessione del perché il menefreghismo individuale e l’indifferenza collettiva si vadano espandendo a macchia d’olio nella scuola superiore, ostacolando sia la partecipazione dei docenti, intesi come corpo docente responsabile dell’indirizzo didattico-educativo, sia l’inclusione degli studenti.
Mi sono sempre soggettivamente chiesto su come un servizio pubblico per eccellenza, qual è quello scolastico, potesse rispondere alle effettive esigenze delle persone; la risposta per me era semplice e lineare: occupandocisi di loro con una reale presa in carico, a maggior ragione allorquando voglio operare con uno studente con disabilità. Macché. Nessuna visione olistica a lungo termine.
Ciò che viene considerato utile è la mera azione del qui ed ora didattico, senza ampliare l’intervento in chiave sistemica alias progetto di vita. L’importante è rispettare tutte le procedure che stanno irreggimentando ogni scuola.
Essenziale è mettersi a posto con le “scartoffie” ovvero ottemperare agli aspetti burocratico-amministrativi, se no – dicono molti colleghi sostenuti dai rispettivi Dirigenti Scolastici -, rischiamo il ricorso delle famiglie. Altro che assumersi il rischio dell’educare, altro che accettare la sfida formativa volta a sostenere lo spirito di iniziativa, creatività e partecipazione attiva degli alunni, altro che lavorare per compiti autentici, ovvero elaborare e perseguire un progetto di vita: l’importante è scrivere e sottoscrivere il PEI (Piano Educativo Individualizzato) nei tempi previsti. In tal modo ci si mette in pace non solo con se stessi, ma soprattutto si spaccia il rispetto delle formalità con il “ben-essere dello studente”.
Tale benessere da un lato corrisponde spesso solo al dichiarato, ma scarsamente attuato (necessiterebbe essere persone autentiche che vigilano, ovvero che si interessano integralmente all’altro, ma ciò poco, molto poco, interessa), dall’altro si ostenta un’inclusione che, seppur verbalizzata e condivisa oralmente, non viene perseguita con le varie azioni di didattica integrata. Autotutela in primis.
È proprio per questo che la scuola, purtroppo, da parecchi lustri non educa più; gli adulti hanno abdicato al loro ruolo di formatori e vogliono assumere il basso profilo di istruire. Vogliono limitarsi a trasmettere conoscenze anche con la didattica a distanza (la lezione online a me ricorda un po’ il salire in cattedra, la tanto vituperata lezione frontale che annulla la partecipazione dinamica degli studenti al processo di insegnamento-apprendimento che si nutre innanzitutto di presenza fisica).
È per questo disinteresse che abbiamo un’elevata dispersione scolastica e un diffuso insuccesso formativo, ciò che riguarda un giovane su quattro? Come posso pensare di educare, tirar fuori il meglio dall’altro, se innanzitutto penso che l’altro sia potenzialmente “una minaccia”? Come potrò aprirmi al giovane studente che ho davanti a me, cioè assumere un atteggiamento mentale di accoglienza e disponibilità verso l’altro, se ho paura di un ricorso? Come potrò accompagnare lungo un percorso di crescita effettuato insieme, se sospetto che il mio studente attraverso i suoi genitori mi possa fare una “tirata” ovvero, se sono diffidente? Come potrò prenderlo in carico e occuparmi della persona con cui voglio fare un cammino?
E vengo al punto. È assurdo pensare che ancora ad oggi la politica non voglia progettare e fare alcunché di strutturale (si veda ad esempio la formazione permanente dei docenti o si pensi alle strutture scolastiche vetuste), ma pensi solo di operare sulla situazione congiunturale, cioè sull’immediato, fronteggiando esclusivamente il Covid-19.
«Caro Giovanni, si fa quello che ti viene “concesso”…». «Eh sì, caro docente di sostegno, prima “tieni il tuo studente disabile” e poi pensi a cosa poter proporre ma… non farlo, dai fastidio alla routine didattica» (a me personalmente è stato detto che «non sono pagato per pensare»… Ho ricordato all’interlocutrice che io penso a prescindere dal fatto che sia pagato ed esprimerò sempre la mia opinione in forza dell’articolo 21 della nostra Costituzione).
Memore che ciascuno di noi è responsabile non solo di ciò che fa, ma anche di ciò che si è deciso di non fare, vorrei qui fare emergere qualche “contraddizione” in questo tempo di neo-liberismo imperante. Inoltre desidererei testimoniare ai “miei” studenti che in nome di questa globalizzazione diffusa ad ogni angolo della terra, spesso gli uomini e le donne, in molte situazioni socio-lavorative, sono diventati semplici esecutori, ma occorre riscattare tale situazione generalizzata che si va diffondendo sempre più.
Non possiamo più accettare che il nostro ruolo, in seno alla società civile, sia ridotto a “mero consumatore”; dobbiamo riprenderci i fondamentali pedagogici ovvero sostenere con forza che la scuola è anche e soprattutto quel luogo fisico in cui essenziale è la comunicazione (è impossibile non comunicare), fatto di interscambi verbali, non verbali e paraverbali, che vivacizzano il nostro essere persone umane, ovvero conferiscono spessore qualitativo alla vita (ben-essere) che corrisponde a un mondo reale il quale non può essere vissuto online.
Mentre scrivo è il 14 settembre e mi ritrovo a dover ri-iniziare appieno la mia attività di docente; siamo presenti finalmente in aula, dando vita a un neo-percorso formativo con gli studenti.
La prima sensazione è quella di sentire di non esserci mai allontanati dalla spazio scuola. Non mi dilungo sulle criticità che nei mesi scorsi sono state vissute e che ancora bruciano sulla pelle, né tanto meno desidero fare emergere i palesi limiti da più parti evidenziati nel cercare di “garantire” ad ogni studente quella che io definisco la personalizzazione del tratto formativo di cui ciascun adolescente ha, a mio avviso, diritto. Non desidero al contempo stigmatizzare la cosiddetta didattica individualizzata e personalizzata a distanza.
Desidero però con forza porre in evidenza che solo perseguendo la realizzazione del Piano Educativo Individualizzato (PEI), con tenacia e costanza innanzitutto da parte dell’insegnante specializzato, lasciato solo ad occuparsi del suo alunno, ci si è potuti sentire vicini a quei ragazzi e ragazze con disabilità che a distanza – pur faticando a ritagliare momenti di concreta partecipazione (il mero collegamento garantiva la mera presenza e chiedendo al contempo di spegnere telecamere e microfoni, per non creare interferenze sulla linea internet, si trasformavano tutti gli alunni della classe in “zombi” o quantomeno si otteneva una “letargia” che permetteva al docente curricolare di fare la sua beneamata lezione frontale), hanno cercato di fornire il loro contributo attivo e fattivo.
Ciò che posso affermare – in quanto istanza profonda che emerge dal “campo” alias realtà tangibile – è che, pur riscontrando l’impegno e la dedizione di pochi, per restituire un minimo di dignità sociale alla scuola, di fatto non si vuole fare della scuola il punto-luogo da cui ripartire per sostenere la crescita-sviluppo del nostro Paese.
Come mai non viene percepito e sentito proprio il dovere politico-sociale di valorizzare la principale risorsa di una Nazione, cioè i cittadini, giovani studenti in primis? Cosa sta succedendo nelle scuole in epoca di dichiarata prosecuzione del periodo di emergenza?
Il Dirigente Scolastico e il suo staff elaborano linee guida, regolamenti, mettono a punto proposte e soluzioni, ciò che è essenziale per poter poi effettuare un fruttuoso confronto, ma, sic et simpliciter, il confronto non lo vogliono, non lo praticano, non lo desiderano né lo ricercano, poiché non c’è tempo per riflettere e confrontarsi serenamente. Le cose vengono poste in essere senza riflettere, senza che la dialettica democratica venga avviata in quanto dà fastidio, fa “perdere tempo”, non serve. In altri termini, all’interno dell’Istituzione Scuola si cerca di forzare la mano, si evita la mediazione (che in genere viene effettuata negli Organi Collegiali) e si vuole “imporre” il proprio modus operandi, evitando il più possibile il confronto intraistituzionale.
Mi chiedo allora: ma la fantomatica sfida posta dalla pandemia da Covid non avrebbe dovuto costringere tutti a ripensare al modo di fare scuola? Se la scuola è un luogo democratico per eccellenza, perché si cerca di ostacolare la collaborazione-partecipazione?
Certamente la scuola è una conquista democratica, e il diritto allo studio è costituzionalmente garantito, ma al contempo nella scuola occorre praticare e non solo dichiarare la partecipazione democratica. Di fatto invece, specie in epoca di emergenza, si vuole omologazione, adesione a quanto già pensato altrove, si vuole con “arroganza” imporre il pensiero unico. A me tutto ciò ricorda un po’ i Decreti del Presidente del Consiglio (DPCM) e i Comitati Tecnico-Scientifici (CTS): sono loro che “pensano”, danno le linee guida e tutti i cittadini si devono adeguare. Stop. Il Parlamento esiste solo per votare la fiducia… A scuola Dirigente Scolastico e staff elaborano documenti e si chiede al Collegio Docenti di votare a favore o contro al documento stilato dalla task force… di fatto si pone “la fiducia”.
Ora mi chiedo, da docente e persona cui sta a cuore l’applicazione della Costituzione: è questa la neo forma di democrazia che avanza? La mia personale preoccupazione? Con questo humus culturale, che privilegia l’approccio “dall’alto verso il basso” (top down), pensare di assumersi la responsabilità di garantire un’equità di trattamento fra alunni/alunne con disabilità e i loro coetanei diventa molto, ma molto difficile. È molto facile la delega all’insegnante specializzato: «Sei tu l’esperto!».
Condivido il fatto che la vera finalità sia l’apertura delle scuole, certamente in sicurezza, ma al fine, però, di consentire la ripresa di quella sana azione didattico-educativa in presenza. Mi chiedo: se le menti non sono aperte, come si potrà, con i dovuti adattamenti, supportare l’inclusione? Con il distanziamento?
Ciò che io temo, ma è molto più di un timore, non sono i cambiamenti logistici e organizzativi, ma la chiusura mentale che il periodo di lockdown ha determinato, l’aridità del cuore che io registro e che si manifesta con una certa freddezza socio-relazionale anche fra colleghi.
L’area dell’inclusione della disabilità non è stata programmata, ci si limita a fornire qualche semplice strumento d’uso, che in realtà non è un vero Dispositivo di Protezione Individuale (mascherina per il volto, gel per le mani…) e a far passare il messaggio: arrangiatevi, è vostro il problema, cari insegnanti di sostegno. Vengono semplicemente negate le specificità e le gravità di talune situazioni di disabilità, gli assistenti per l’autonomia e la comunicazione vengono semplicemente ignorati.
Ciò che ho capito da questo primo giorno di ritorno a scuola è una semplice cosa: la paura condiziona la maggior parte del comportamento umano.
E’ vero che «tutta la vita è risolvere problemi» (Karl Popper), ma innanzitutto occorre porseli i problemi e non negarli o scrollarsene di dosso l’esigenza. Ovvio che serve l’aiuto di tutti. Ovvio che la scuola e la famiglia, le due agenzie educative che lavorano sul front-office, devono potersi incontrare, confrontare e collaborare. Ciò però in teoria.
In realtà solo se il docente di sostegno, oggi più che mai, fa da collante, si riuscirà a interagire dinamicamente, ma temo che le condizioni sociali (aggressività e competizione onnipresente, orientata a fare affermare l’interesse soggettivo su quello collettivo, creando un gap incolmabile) e quelle specifiche della scuola (paura imperante e dilagante; rinuncia al senso di responsabilità della comunità educante a favore dell’.indifferenza e del basso profilo) stanno creando non solo le condizioni per il perpetrarsi delle diseguaglianze, ma anche quelle di minare alla base la stessa società.
La fiducia nell’umano si sta perdendo a favore di cosa? Oggi più di ieri i nostri contesti di vita hanno bisogno di accoglienza, ascolto, disponibilità, dialogo, rispetto e, soprattutto, di maggiore fiducia nelle persone. Ma se ho paura e voglio essere sicuro nella mia nicchia ecologica-sanitaria garantita dal distanziamento sociale, non viene implicitamente negata la partecipazione diretta? Come si può fare, allora?
Lottare e credere nel cambiamento che parte solo ed esclusivamente dal nostro interno. L’umana e sana paura è stata trasformata dai mass-media in angoscia e ciò è penetrato nelle menti delle persone adulte-docenti che già mi dicono: «Sai, Giovanni, io ho la mascherina, ho la visiera, ho sanificato le mani, ma nonostante ciò ho paura che lo studente mi sputacchi»…).
L’interiorizzazione della fiducia comincia dalla famiglia, per poi passare dalla scuola, che diviene speranza, sempre, ovunque. Tale fiducia rappresenta la finestra attraverso la quale mi affaccio speranzoso alla società in cui il giovane studente deve trovare quelle opportunità-occasioni che gli permettano di assumere un ruolo significativo per sé.
Come facciamo a dare un futuro ai nostri figli? Necessita essere coesi per rendere la nostra comunità educante, di cui dobbiamo condividere il senso ultimo, più forte ed efficace, perché l’educazione non si impone. Esprimere il meglio di sé matura in noi con la partecipazione attiva nella scuola, nella famiglia, e poi si estende nella società; accade con la riflessione e il dialogo che permettono un confronto intellettualmente onesto e coerente.
Oggi assistiamo, e non so bene come definirlo, al fatto che chi sta a capo del Ministero di Via Trastevere afferma: «Che fatica la vita da ministra». Questo mi ricorda un po’ quel Dirigente Scolastico che allorquando sostenni che egli dovesse concorrere a creare un clima lavorativo sereno, evitando situazioni di tensioni sia al personale docente che a quello non docente, ovvero che sarebbe stato opportuno prevenire situazioni di stress da lavoro correlato, mi disse laconicamente e semplicemente: «Ma allo stress del preside chi ci pensa?»…
Lui però è il proposto e non può con un sottoposto lamentarsi, tutt’altro. Così fa la nostra ministra. L’espressione di Azzolina appare quanto meno uno sfottò nei confronti di tutti gli italiani e soprattutto di chi è senza lavoro. Inoltre, ricordando che è stata eletta come Parlamentare, credo che dovrebbe avere l’onore di rappresentare il popolo sovrano e come tale semplicemente “sopportare” la sua posizione apicale ovvero esprimere resilienza.
Concludendo non mi resta che sottolineare che chi fa politica espleta un servizio per la societas civilis e che il politico-parlamentare dev’essere onorato (non per niente si chiama onorevole) di essere al servizio della res publica, ma oggi il senso di responsabilità collettivo è sfumato, si afferma troppo spesso solo il desiderio di potere soggettivo.
Lo si vive anche a scuola l’opportunismo e il tirare a campare. Operare nel mondo della scuola oggi non è facile ma non penso, anzi non credo, che gli insegnanti debbano continuare ad assumere un “basso profilo”, ovvero da un lato accettare la lenta deriva sociale in cui la scuola è invischiata, dall’altro tollerare di non fornire il proprio contributo quotidiano per affermare che la scuola è vitale e che, in prima persona, ci dobbiamo dare da fare in quanto «chi dorme in democrazia si sveglia in dittatura» (Ugo Mattei).
Invito tutti i colleghi insegnanti e ogni altro operatore della scuola ad avere coraggio, a sostenere le proprie posizioni negli opportuni organi collegiali, ad esprimere le proprie opinioni nelle opportune sedi, nonostante “l’avversa stagione”, per essere cittadini attivi.
Come facciamo a essere coerenti e congruenti con gli alunni se non diamo l’esempio? Con coraggio possiamo “fare politica” tutti i giorni con i nostri studenti affinché possano esprimere le loro potenzialità. Insieme possiamo preparare i giovani al futuro, vivendo e testimoniando la bellezza e la fatica dell’esserci.
Dobbiamo rendere vive e aperte al territorio le nostre comunità scolastiche di appartenenza, ne va della nostra dignità personale e professionale, che credo fermamente sia al servizio del bene pubblico, inclusione in primis.