Il diritto di voto è garantito dalla Costituzione Italiana a tutti i cittadini della nazione, senza distinzione di sesso, razza, tendenze politiche, religiose o sessuali. E senza pregiudizi sullo stato psicofisico dell’elettore, o così, almeno, dovrebbe essere.
Ho 61 anni, sono affetta da tetraparesi spastica e da quando ho la maggiore età ho sempre fatto il mio dovere di cittadina senza riscontrare grossi problemi. Tranne che nell’ultima consultazione elettorale.
Il 20 settembre, infatti, mi sono recata a votare con mia sorella, mio nipote e un’amica, anche lei persona con disabilità. Quando mio nipote ha detto di farmi votare, il presidente di seggio ha chiesto, senza degnarmi di uno sguardo, se avevamo il certificato medico.
È intervenuta allora mia sorella, spiegando che finora nessuno ce l’aveva chiesto e che sulla carta d’identità c’è specificata la dicitura «impossibilitata a firmare». Non convinta, la persona si è rivolta a me, chiedendomi, davanti a tutti, se fossi in grado di votare da sola.
Dopo altre discussioni e la minaccia di ricorrere ai Carabinieri, mi hanno finalmente fatto entrare in cabina con mia sorella.
Ammettendo pure l’eccesso di “zelo” del presidente di seggio e la nostra ignoranza in materia di legge elettorale, non è però assolutamente giustificato il comportamento supponente, arrogante, malfidente e maleducato sia del capo degli scrutatori che del suo assistente.
Non per fare vittimismo, ma credo che questa ulteriore umiliazione mi abbia confermato quanta strada ci sia ancora da fare verso una completa inclusione e comprensione del mondo della disabilità.
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