Con la sua vocazione interdisciplinare e il suo orientamento inclusivo, la Pedagogia Speciale può svolgere, sia sul piano della riflessione teorica che su quello operativo, un ruolo fondamentale nell’individuazione di percorsi educativi che supportino le donne con disabilità nell’espressione di tutte le dimensioni della propria identità. Un’identità plurale e in costante divenire, come, del resto, lo è quella di tutte le persone.
È questa l’idea portante su cui si regge Come fenici. Donne con disabilità e vie per l’emancipazione (Franco Angeli, 2020), l’ultima pubblicazione di Arianna Taddei, ricercatrice in Pedagogia Speciale al Dipartimento di Scienze della Formazione, dei Beni Culturali e del Turismo dell’Università di Macerata, libro da noi presentato qualche settimana fa.
Si tratta di un lavoro notevole, innovativo e concreto nel costante tentativo di tenere insieme teoria e prassi. Da esso abbiamo preso spunto per rivolgere qualche domanda alla sua Autrice.
Nella ricostruzione della cornice teorica di riferimento, lei propone una rilettura critica dei Feminist Studies e dei Disability Studies, evidenziandone l’incapacità di cogliere e rispondere all’esigenza delle donne con disabilità di essere considerate nella propria interezza. I primi hanno disvelato e combattuto il sessismo che penalizza tutte le donne, ma lo hanno fatto nell’àmbito di un paradigma abilista, centrato sulla donna normodotata; i secondi hanno elaborato un modello sociale della disabilità capace di superare l’individualismo del modello medico, ma non di includere nella propria riflessione il genere e il corpo. Una risposta a queste criticità arriva dai Feminist Disability Studies che, lei scrive, «contribuiscono a re-immaginare la disabilità». Cosa vuol dire, in concreto, «re-immaginare la disabilità»?
«Significa liberare la rappresentazione delle donne con disabilità dagli stereotipi della “fragilità”, della dipendenza assoluta, dell’incapacità di prendersi cura degli altri, dell’idea di una donna asessuata che non è nelle condizioni di poter immaginare e tanto meno di realizzare la propria vita, ad esempio, nelle vesti di partner e/o di madre.
I Feminist Disability Studies offrono le chiavi interpretative per riconcepire le prospettive di vita delle donne con disabilità all’interno delle sfere esistenziali comuni a tutte le donne, da quella affettiva-sessuale, a quella educativa, professionale e sociale. Significa quindi collocare il dibattito teorico sul binomio genere-disabilità all’interno di un paradigma capace di cogliere la complessità del tema, per non cadere in letture dicotomiche e semplicistiche della realtà, che non consentirebbero la costruzione di risposte adeguate sul piano delle policies e delle prassi».
Lei rileva che il tema del corpo e quello dell’identità sono stati oggetto di studio della Pedagogia Speciale sin dai suoi esordi, e che negli ultimi due decenni hanno assunto anche una declinazione al femminile, ma, nonostante ciò, rimangono ancora circoscritti ai/alle pochi/e addetti/e ai lavori. Le linee di azione individuate nella parte conclusiva di questa sua opera sono volte anche a fare in modo che queste tematiche diventino patrimonio condiviso da chiunque svolga funzioni educative. Quali, tra gli interventi proposti, considera prioritari?
«Nel complesso credo che sia opportuno agire in tre direzioni: la formazione degli attori chiave, la ricerca nei diversi àmbiti del progetto di vita e l’azione derivante da una progettazione “pensante”.
Il primo intervento prioritario è quello a supporto della famiglia perché le radici del progetto di vita e quelle dell’emancipazione vengono poste sin dalla nascita e durante l’infanzia. Le prime figure educative significative sono i genitori o chi ne fa le veci, quindi sarebbe importante realizzare percorsi a sostegno della funzione genitoriale tenendo conto della questione di genere. Infatti, a volte la rappresentazione di un corpo neutro e asessuato viene coltivata proprio a partire dalla famiglia, dove atteggiamenti iperprotettivi nei confronti delle figlie con disabilità possono giungere ad assegnare loro un destino sin da principio “mutilato” di alcune opportunità, ritenute invece valide per il futuro delle donne senza disabilità.
Ovviamente la scuola costituisce un terreno strategico a favore dell’emancipazione delle giovani con disabilità, perché l’educazione riveste un ruolo determinante nello sviluppo dell’empowerment [crescita dell’autoconsapevolezza, N.d.R.]. Le competenze e le conoscenze che la scuola dovrebbe offrire a tutti rappresentano per i giovani e le donne con disabilità un antidoto irrinunciabile contro ogni forma manipolatoria di violenza e di emarginazione sociale. È importante quindi investire sulla formazione degli insegnanti affinché il loro approccio pedagogico non si limiti allo svolgimento di una didattica di tipo compensativo, volto a colmare dei gap sul piano dell’apprendimento curricolare, ma sia finalizzato allo sviluppo integrale della persona, salvaguardandone la pluralità identitaria di cui la disabilità, il genere, così come altre dimensioni di appartenenza socio-culturale, costituiscono fattori imprescindibili del progetto educativo.
Il modello dell’ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2001, N.d.R.] e l’approccio dei diritti umani attraverso la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (2006) offrono le cornici culturali e le indicazioni operative per ripensare ad una progettazione educativa fondata sulla valorizzazione delle differenze, che renda la scuola un ponte privilegiato per un’inclusione sociale e professionale libera da una cultura della violenza verso chi viene considerato “diverso”.
Infine, credo sia necessario investire sulla formazione delle figure dei caregiver che assumono una funzione rilevante all’interno dei processi di cura nei quali trovano sintesi la funzione di accudimento dei bisogni legati alla salute psicofisica e quella di nutrimento della qualità delle relazioni umane, nelle quali le persone sono solite rispecchiarsi. È quindi opportuno realizzare percorsi formativi dedicati alla famiglia, alle figure socio-assistenziali, agli educatori, ma anche al personale medico e paramedico. Lo stato dell’arte evidenzia difficoltà permanenti riscontrate dalle donne con disabilità in relazione alla tutela della loro salute sessuale. La Pedagogia Speciale contribuirebbe ad approfondire in un’ottica interdisciplinare la relazione medico-paziente sulla base dei bisogni delle donne con disabilità e la messa a punto di azioni e protocolli volti a garantirne il rispetto e la dignità».
Lei sviluppa la sua riflessione pedagogica analizzando le autobiografie di tre donne con disabilità lungo i rispettivi cicli di vita, dall’infanzia alla vecchiaia, focalizzando l’attenzione sulle sfide e sulle scelte progettuali che hanno caratterizzato il loro percorso di emancipazione. Un lavoro davvero notevole, che mostra come l’educazione sia il filo rosso che accomuna queste tre esistenze le quali, per altri versi, sono molto diverse tra loro. Nella realtà quanto è praticato questo approccio longitudinale? Quanto è praticato tra gli/le insegnanti, gli/le educatori/trici, gli /le operatori/trici che operano con le persone con disabilità? E ancora, quanto è praticato nelle famiglie e nei servizi territoriali rivolti alle persone con disabilità?
«Purtroppo, ancora nel nostro Paese prevalgono prospettive e approcci di intervento frammentati. I vari attori istituzionali e sociali attuano tuttavia secondo una logica settoriale che talvolta perde di vista la globalità dello sviluppo della persona. Probabilmente ancora non è abbastanza consolidata la consapevolezza culturale che le funzioni educative della famiglia, della scuola, del mondo del lavoro e dei servizi territoriali contribuiscono tutte alla realizzazione di un unico progetto di vita che necessita di una tessitura attenta, competente e coordinata a dispetto di azioni autonome, disarticolate e purtroppo a volte improvvisate, drammaticamente distanti dalla prospettiva della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità».
Nonostante l’approccio intersezionale risulti essere quello più adatto ad affrontare la complessità della condizione delle donne con disabilità, lei osserva che spesso la relazione tra le variabili di genere e di disabilità è stata interpretata più in termini di “sommatoria di svantaggi”, che «come un’intersezione volta ad esplicitare i meccanismi attraverso cui ciascuna variabile agisce ed interagisce con l’altra». Può fare un esempio che mostri perché riflettere in termini di “sommatoria di svantaggi” è inadeguato?
«L’analisi in termini di sommatoria esamina separatamente gli svantaggi associati rispettivamente alla condizione di genere e a quella di disabilità, considerando le conseguenze delle diverse tipologie di discriminazione una alla volta e in modo indipendente. Nella realtà, al contrario, le variabili di genere e disabilità spesso agiscono e interagiscono simultaneamente e contestualmente per cui le relative conseguenze sono inseparabili e per essere comprese in profondità devono quindi essere considerate nel loro complesso e in modo integrato.
Ad esempio, se si volesse studiare l’inclusione lavorativa delle donne con disabilità in Palestina, non sarà sufficiente considerare la questione di genere all’interno della cultura locale, ma sarà necessario analizzare anche come la disabilità venga interpretata in quel preciso contesto socio-culturale e come l’intreccio delle due variabili contribuisca ad amplificare e trasformare sia la percezione di fragilità sia la stigmatizzazione sociale delle donne con disabilità. È evidente quindi la necessità di lavorare contemporaneamente su politiche sociali in cui la disabilità e il genere siano due prospettive di mainstreaming cioè trasversali alle politiche stesse».
La pubblicazione si conclude con una riflessione sulla “pedagogia dell’emancipazione”. Vuole spiegare brevemente a chi non ha letto l’opera in cosa consiste?
«La pedagogia dell’emancipazione trae ispirazione da un lavoro di Paulo Freire sulle virtù dell’educatore. Nonostante l’innegabile evoluzione degli strumenti normativi nazionali e internazionali nel corso degli ultimi decenni, il saggio evidenzia la presenza di aporie di varia natura che sono alla base dei fenomeni multidiscriminatori, di violenza ed emarginazione sociale verso le donne con disabilità. Le cause del problema rimangono di tipo culturale e per tale ragione l’educazione rappresenta lo strumento più potente per rispondere alle emergenze pedagogiche del nostro tempo e affermare una cultura fondata sui diritti.
Il saggio tenta di costruire una mappa di possibili vie che possano sostenere il processo di emancipazione delle donne con disabilità, rivisitando le tematiche della progettazione e dell’accessibilità, dell’educazione e della cura, della prevenzione e della cooperazione. La pedagogia dell’emancipazione include i fondamenti teorici e operativi per riuscire a “fare un passo in avanti” rispetto a radicate condizioni di svantaggio e invisibilità che purtroppo riguardano ancora moltissime donne con disabilità».
Arianna Taddei è ricercatrice in Pedagogia Speciale presso il Dipartimento di Scienze della Formazione, dei Beni Culturali e del Turismo dell’Università di Macerata, e autrice di diversi saggi sull’educazione inclusiva. Simona Lancioni è Responsabile di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa).
Arianna Taddei, Come fenici. Donne con disabilità e vie per l’emancipazione, Milano, FrancoAngeli, 2020.
Per approfondire il tema Donne e disabilità, oltre a fare riferimento al lungo elenco di testi da noi pubblicati, presente a questo link, nella colonnina a destra dell’articolo intitolato Voci di donne ancora sovrastate, se non zittite, si può accedere alla Sezione Donne con disabilità, nel sito del Centro Informare un’h.
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