Come avevamo segnalato nei giorni scorsi, era stato Alberto Arenghi, docente associato di Architettura all’Università di Brescia, nonché delegato del Rettore per la Disabilità nell’Ateneo bresciano, a denunciare l’inaccessibilità alle persone con disabilità motoria della sezione denominata Una casa nella casa, all’interno della mostra Juan Navarro Baldeweg. Architettura, pittura, scultura in un campo di energia e processo, ospitata nella città lombarda, al Museo di Santa Giulia, fino al 5 aprile. In seguito avevamo dato spazio, nella nostra sezione Opinioni all’intervento sulla questione di Stefano Karadjov, direttore della Fondazione Brescia Musei.
Nei giorni successivi vi è stato un contatto diretto tra Arenghi, Karadjov e Pierre-Alain Croset, curatore della retrospettiva dedicata all’architetto Baldeweg – messo anch’egli a corrente della questione, dopo il quale, come informa lo stesso Arenghi, «sembra si stiano realizzando le condizioni per addivenire a soluzioni che nel breve potrebbero risolvere la situazione». «Mi auguro dunque – aggiunge – che la fattiva collaborazione porti alla partecipazione ad un importante evento culturale per Brescia da parte della comunità tutta. Se infatti lo spirito di costruttiva discussione e collaborazione darà i frutti sperati, sarò il primo ad esserne soddisfatto e a darne la più ampia diffusione, rendendo merito a tutti coloro che si saranno adoperati per il raggiungimento di quanto auspicato».
Quanto detto, riteniamo ugualmente utile pubblicare qui di seguito una serie di riflessioni di Arenghi sull’accessibilità dell’arte, elaborate prima del contatto con i responsabili della mostra di Brescia e assai valide ben oltre la stessa specifica questione di cui si parla.
«L’arte […] non può essere tale in sé, ma esiste solo se “appartiene”, cioè è fruita dall’uomo […], ogni ostacolo che si frappone tra l’uomo e l’arte, che in qualche modo ne impedisce la fruizione o ne limita il campo di relazione, o la “zona d’esperienza” […], è negazione dell’arte stessa e dei principi che presiedono una corretta pratica di salvaguardia»: così scriveva nel 1998 l’architetto Gian Paolo Treccani, docente all’Università di Brescia, ragionando sul rapporto tra accessibilità, tutela e arte.
Ritengo che il contributo del direttore della Fondazione Brescia Musei Stefano Karadjov, riportato su queste pagine, si rifaccia a una serie di argomentazioni circa l’inaccessibilità della mostra (o dell’installazione artistica) del Museo di Santa Giulia a Brescia che non possono essere in alcun modo accettate, sia perché sono contra legem (dalla Costituzione Italiana fino alla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, recepita dal nostro Paese con la Legge n. 18 del 3 marzo 2009), sia perché i documenti internazionali inquadrano, in maniera chiara e inequivocabile, in maniera differente, quale debba essere il ruolo della cultura in riferimento al singolo e alla comunità.
All’articolo 27, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) afferma che «ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici».
Più recentemente, la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società (2005), più semplicemente Convenzione di Faro del 2005 (ratificata proprio il mese scorso dal Parlamento Italiano, esattamente il 22 settembre), partendo dalla citata Dichiarazione Universale, ha introdotto, all’articolo 2b, la definizione di Heritage Community (letteralmente “patrimonio della comunità”), scrivendo che «una heritage community è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici del patrimonio culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future».
Il profilo collettivo della predetta nozione è confermato nell’articolo 4 della stessa Convenzione di Faro: «Le Parti riconoscono che: 1. chiunque, da solo o collettivamente, ha diritto a trarre beneficio dal patrimonio culturale e a contribuire al suo arricchimento; 2. chiunque, da solo o collettivamente, ha la responsabilità di rispettare parimenti il proprio e l’altrui patrimonio culturale e, di conseguenza, il patrimonio comune dell’Europa; 3. l’esercizio del diritto al patrimonio culturale può essere soggetto soltanto a quelle limitazioni che sono necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico e degli altrui diritti e libertà».
Un’attenta lettura della Convenzione di Faro configura dunque un importante rilievo giuridico con lo spostamento dell’attenzione dal diritto del singolo individuo a quello della comunità in cui egli vive. Si parla quindi di un diritto collettivo per cui la comunità si fa carico di tutti i suoi componenti affinché nessuno rimanga escluso, rafforzando così il diritto del singolo sotto l’“ombrello” della comunità stessa.
In ultimo, la Relazione Bogdan Andrzej Zdrojewski del 2018 sugli ostacoli strutturali e finanziari nell’accesso alla cultura affronta l’argomento in ottica generale, richiamando sia gli aspetti fondativi della questione, sia quelli più contemporanei. Vi si afferma: «La presente è la prima relazione completa della commissione per la cultura e l’istruzione [del Parlamento Europeo] che tratta direttamente la questione dell’accesso alla cultura. Il relatore considera la questione dell’accesso alla cultura un tema alla base della politica culturale, sia dal punto di vista nazionale che da quello dell’Unione Europea, nonché di importanza cruciale dalla prospettiva dei cittadini. Rammentando il valore fondamentale di un settore culturale attivo e accessibile per lo sviluppo di una società democratica inclusiva, il relatore sottolinea la necessità di sostenere e migliorare le condizioni di accesso alla cultura come una delle massime priorità dell’agenda politica, e invita a integrare le questioni relative all’accessibilità e alla partecipazione alla cultura nell’azione principale di altri settori di politica».
In questa prospettiva, il requisito dell’accessibilità è richiamato nella definizione di «valorizzazione» contenuta nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (Decreto Legislativo 42/04), requisito che deve sempre essere preso in considerazione perché «promuovere lo sviluppo della cultura» è un’operazione che acquista connotazioni sociali, antropologiche e identitarie a cui nessuno può e deve rinunciare.
Il legame tra diritto individuale e collettivo e l’importanza della valorizzazione del patrimonio culturale e della cultura sono stati ben espressi da Umberto Eco nel 2015 attraverso il concetto di memoria: «[…] come esseri umani, quando diciamo “io”, intendiamo la nostra memoria. La memoria è anima. Se qualcuno perde la memoria, diventa come una pianta. Non ha più anima. Noi siamo la nostra memoria. Memorie condivise significano identità comune […]».
Venendo a temi di carattere più tecnico, invece, occorre ricordare che:
1. Le barriere impediscono la piena partecipazione delle comunità ai processi culturali e agli ecosistemi culturali, inibendo quindi, automaticamente, il potenziale di sviluppo delle comunità stesse.
2. Ogni forma di barriera introduce degli elementi inerziali negli ecosistemi di business che potrebbero derivare dall’industria culturale e creativa.
3. Ogni forma di limitazione all’accesso introduce delle resistenze – dirette o indirette – al perseguimento di un sistema di società inclusiva e di un processo di crescita inclusiva, impedendo quindi l’attuazione di Europa 2020: la strategia dell’Unione europea per la crescita e l’occupazione.
4. Le barriere rappresentano una degradazione complessiva dell’ecosistema culturale europeo di fronte allo scenario internazionale extra-europeo, squalificando il valore potenziale di implementazione dell’industria culturale e creativa.
Ora ritengo che lo sforzo che è stato meritoriamente messo in atto veda la mostra di Baldeweg come propedeutica al ritorno in città – dopo il lungo restauro – della Vittoria Alata, simbolo e memoria per Brescia e per la sua comunità. In particolare in un periodo tremendo come quello che stiamo vivendo, la cultura diviene un collante sociale e identitario straordinario per la comunità tutta – nessuno escluso -, un’irrinunciabile linfa che restituirà alla stessa il senso di appartenenza che può essere esercitato attraverso la piena partecipazione e il riconoscimento della propria memoria, ovvero della propria anima.