Viviamo nell’era dell’accelerazione del tempo nonché del “tutto e subito” e del “qui ed ora”. La nostra giornata pare costantemente scandita da un timer-orologio sincronizzato con le imminenti scadenze, nonché da impegni dettati da un cronoprogramma che dobbiamo non solo rispettare con urgenza, ma anche portare a termine, pena il sentirsi inadeguati. Di contro penso, anzi sono fermamente convinto, che educare vuole tempo, calma e pazienza e che la scuola debba riconquistare questo habitus mentale, se non vuole solo limitarsi a trasmettere conoscenze alias istruire. La pazienza esige una dilatazione del tempo presente, un fermarsi per non farsi travolgere dall’incessante divenire. Sapere attendere e aspettare il “momento giusto”, ovvero la maturazione delle cose, pare essere divenuto un privilegio, ma la natura ha i suoi tempi e distribuisce i suoi frutti a seconda delle stagioni.
A me pare proprio che nella società umana si sia perso il senso dell’appartenere alla natura e di conseguenza anche a scuola tutto appare accelerato: ad esempio si corre dietro a innumerevoli progetti, tant’è che alle superiori l’Istituzione Scolastica mi appare come trasformata in un “progettificio segmentato”.
Questo da un lato permette, in un’ottica di servizio, di offrire tanti stimoli agli studenti, ma ci si dimentica dell’umano che è insito in ogni persona-studente. Di fatto esponiamo gli alunni a una montagna di sollecitazioni, senza permettere loro di interiorizzare le neo-informazioni che restano tali e non si trasformano in conoscenze proprie, interiorizzate poiché metabolizzate. Si impedisce loro il poter costruire al proprio interno una mappa cognitiva ed emotiva sicura, su cui fondare la possibilità reale di edificare il proprio progetto di vita. Se non forniamo una base sicura ai nostri studenti più vulnerabili, disabili in primis, come potremo accompagnarli lungo il sentiero che li porterà a vivere una cittadinanza attiva?
È opportuno, e forse urgente, riaffermare il principio dell’andare piano, poiché, così come sostiene un vecchio motto – e sappiamo che i proverbi pescano nella saggezza popolare – “chi va piano va sano e va lontano”, ma, ahinoi, assisto ad una frenesia, spesso in capo ai Dirigenti Scolastici, che pare dimentichino la necessità di confrontarsi prima e solo dopo di progettare e agire.
Nell’era della velocità, delle notizie planetarie istantanee, pare che la pazienza sia una virtù negata, ma ciò mal si concilia con la possibilità di elaborare, indi realizzare, ad esempio un percorso formativo con studenti che, avendo specifici bisogni, necessitano di più tempo, di spazi privilegiati, del rapporto 1:1, di vibrare con l’adulto di riferimento affinché si conquisti una fiducia reciproca; in altri termini hanno bisogno dell’essenza di ogni persona: realizzare autentici rapporti umani.
Nei nostri ambienti socio-lavorativi pare difficile fermarsi; tutto viene vissuto con fretta e ciò spesso genera apprensione ed ansia; ecco quindi che fra i corridoi della scuola mi sento dire «Scusa Giovanni ho fretta, ne parliamo un’altra volta» ed è fuor di dubbio che questa “altra volta” di fatto non ci sarà.
I tempi, sempre più stringenti, fanno sì che altre volte mi senta dire: «Gio, ti devo lasciare, ho delle cose urgenti da fare». Ma come, programmare è l’essenza del nostro lavoro professionale di docenti e non abbiamo tempo per confrontarci sia nei momenti formali (Consigli di Classe in primis), sia in situazioni informali? Siamo per caso all’ospedale nel reparto di urgenza e emergenza?
Mi chiedo come riusciremo a pianificare insieme una programmazione didattico-educativa concertando le azioni da espletare affinché il PEI (Piano Educativo Individualizzato) o il PDP (Piano Didattico Personalizzato) non siano solo carta straccia… Che non siano solo documenti che si identificano con meri impegni burocratico-amministrativi i quali a loro volta dichiarano un fare che non viene attuato, se non soggettivamente e a modo proprio… Se non riusciamo più a “gustare” l’esperienza dello stare insieme per confrontarci, a me pare proprio che la fretta diventi nemica non solo delle relazioni ma anche della possibilità di lavorare sincronicamente alla realizzazione di quel percorso formativo che abbiamo controfirmato, PDP e/o PEI che sia.
La componente rispettosa e attenta all’altro, in altri termini l’ascolto attivo, non viene considerata come utile e preziosa, quasi che la nostra azione di docenti non transitasse attraverso relazioni umane degne di essere definite tali.
Occorre dedicarvi del tempo, donare all’altro il nostro prezioso tempo, se insieme vogliamo operare e agire come un’équipe. Riusciremo a fare ciò nel segmento della secondaria di secondo grado? Ho più di una perplessità.
La fretta ci fa diventare prima superficiali e poi indifferenti e tale processo lo registro da parecchi anni in modo silente ma costante e continuo. In nome della fretta, quante volte sento dire «ragazzi siamo indietro con il programma» e così blocchiamo la comunicazione degli studenti. Questi ultimi pare che debbano essere solo orientati al compito performante e non al vivere una realtà scolastica fondata su relazioni che vadano quotidianamente valorizzate.
La fretta è divenuta uno stile di vita, una sorta di dipendenza, ma se io agisco con fretta con lo studente fragile che ha bisogno di tempi lunghi, come faccio ad integrarlo in seno al gruppo classe che accelera e lascia indietro chi non sta al passo?
Fermarsi vuol dire rallentare il ritmo di apprendimento e al contempo si può introdurre la collaborazione, la reciprocità in presenza, la riflessione. Ben sappiamo quanto oggi abbiamo bisogno di riflettere e non solo di consumare notizie veicolateci da mass media e social. In realtà, dietro al paravento del «siamo indietro con il programma ministeriale» si cela spesso l’evitare di sentirsi a disagio, poiché rallentando occorre venire a contatto con parti profonde di se stessi.
Tenuto conto che il modello sociale del “chi si ferma è perduto” lo abbiamo interiorizzato anche in noi adulti-educatori-docenti, il rallentare può indurre una sorta di disagio: ecco perché continuiamo a correre. Il fermarsi potrebbe permettere da un lato alla classe di fare l’esperienza del riflettere su ciò che si prova con l’essere lenti, ma precisi e responsabili, dall’altro potrebbe permettere al docente di provare a introdurre delle novità metodologiche, ovvero dei cambiamenti tesi a far sperimentare e apprendere qualcosa di nuovo.
Bisogna darsi il tempo necessario per parlare e ascoltare indi apprezzare le cose belle che succedono “qui ed ora”.
Ciò che richiede l’attendere con pazienza crea intorno a noi una certa aspettativa. Mi domando: siamo sufficientemente capaci di aspettare? Siamo attenti a fornire nel nostro quotidiano il meglio, entrando “in campo” al momento giusto?
Il tempo racchiude un valore in sé e, come si suol dire, ogni cosa ha un suo tempo che dobbiamo imparare a rispettare; questo è un esercizio di responsabilità che io ascrivo al mondo adulto (genitori e insegnanti). Se gli adulti continuano a casa e nelle aule di scuola a trasmettere fretta e ad essere competitivi – in quanto si devono ottenere quelle competenze pre-definite -, va da sé che nell’adolescente delle superiori rinforzo il fatto che se non si darà da fare subito, sarà un perdente nella vita e se non riesce peggio per lui, rimarrà indietro.
Non mi pare proprio che in àmbito pedagogico le cose debbano funzionare così, tutt’altro. Occorre avere la capacità di differenziare in aula in base alle effettivi esigenze di ciascuno e personalizzare il tratto formativo di ogni studente, ma ciò transita solo ed esclusivamente attraverso un’attenta e completa osservazione, tesa a fare emergere i bisogni di ciascuno. Registrate e condivise le istanze soggettive, emerge l’importanza della dedizione del tempo necessario e, all’occorrenza, di un setting specifico.
Sì, qui voglio schierarmi controcorrente. Non sono assolutamente d’accordo che con situazioni “molto speciali”, alias “casi” di grave disabilità, si debba sempre stare in aula con la classe e ciò almeno per i seguenti motivi: innanzitutto spesso necessita uno spazio in cui sia possibile valorizzare meglio il rapporto 1:1; in tal senso, l’aula della classe può, in taluni frangenti, essere un vero e proprio ostacolo al protrarsi di una relazione significativa (dalla presenza di un eccessivo numero di stimoli sensoriali alla presenza di istanze multiformi che possono disorientare). Inoltre, i tempi dello studente con disabilità grave mal si adeguano spesso al ritmo della classe e viceversa, né vi è sempre la possibilità, in aula, di attivare lavori di gruppo o in gruppo, indi ricorrere a modalità didattiche interattive. Talvolta si ha bisogno anche di uno spazio e di un tempo proprio, specifico, dedicato, pena la frustrazione di taluni bisogni non solo dello studente con disabilità, ma anche dell’intera classe e ciò, paradossalmente, nuoce sia all’integrazione quanto all’inclusione che, e ciò va sottolineato con assoluta forza, non si avvale della mera presenza fisica, costante e continua, in classe.
I due punti appena indicati cerco di motivarli con un esempio concreto. Allorquando lavoro nell’“aula speciale” alias “di sostegno” con lo studente con disabilità e magari con qualche suo compagno, ho l’opportunità concreta di abilitarlo ad apprendere non solo dei contenuti, ma ad agire in autonomia con simulazione e role playing [tecnica simulativa che richiede ai partecipanti di svolgere, per un tempo limitato, il ruolo di “attori”, N.d.R.], a cui ricorro. Ritornando in aula con tutti i suoi compagni, il “mio” studente con disabilità grave riesce non solo ad esprimere neo-conoscenze, ma al contempo fa ammirare le sue competenze in azione, anche se conquistate all’esterno della sua aula-classe. Cosa evidenzio con tale intervento dinamico? Almeno due importantissimi aspetti: da un lato lo stupore indotto nei compagni, che oltre all’ammirazione e all’apprezzamento, scoprono che il loro compagno con disabilità sa fare cose interessanti e in autonomia; dall’altro l’alunno con disabilità che registra un apprezzamento sincero da parte dei compagni, ne è lusingato e al contempo vive un senso di autoefficacia che ne supporta l’autostima. In questo modo lo studente con disabilità ha un’ulteriore possibilità di giocare un ruolo da protagonista e si vede al contempo riconosciuto sia nella sua identità, sia nel suo senso di appartenenza al gruppo che si rafforza e si consolida.
Con ciò voglio fermamente sostenere che lavorare all’esterno dell’aula della classe non sempre e per forza è deleterio, non sempre è sinonimo di emarginazione, in quanto permette di cucire meglio su misura il vestito della formazione da porre in essere con lo studente con disabilità. Le buone prassi da me sperimentate in vivo testimoniano proprio questo assunto e per avvalorare ciò desidero effettuare anche un paragone con il calcio, pur potendo apparire come una similitudine un po’ forzata.
Ogni squadra del nostro sport nazional-popolare ha un mister (allenatore) per tutta la squadra di calcio (comparabile con il docente curricolare), ma esiste anche un preparatore specifico per il ruolo del portiere che espleta una funzione specifica (a scuola si identifica con l’insegnante specializzato). In ogni seduta di allenamento il portiere fa accoglienza e riscaldamento iniziale con la squadra, ma non si allena per tutto il tempo con i suoi compagni di squadra. Parte del suo tempo-allenamento lo passa con un preparatore specifico: quello appunto dei portieri. Poi ritorna in squadra preparato e partecipa alla partitella di fine allenamento, indi alla gara di calcio domenicale, interpretando al meglio il proprio ruolo.
Orbene, come insegnante specializzato, al pari dell’allenatore del portiere – ruolo che ha precipui bisogni che possono e devono essere soddisfatti con un allenamento specifico ad personam -, desidero essere il coach dell’alunno con disabilità che, insieme a me e con qualche compagno, può fare un allenamento a parte, specifico, indi successivamente rientrare nella squadra, alias classe, ed esprimere il meglio di sé. Inutile negarlo: il setting aula talvolta non agevola il soddisfacimento delle esigenze specifiche, quindi allenando il “mio” studente “in porta”, nel suo ruolo speciale, poi rientrerà in squadra e disputerà al meglio la sua partita e sarà apprezzato in ciò anche dai compagni di squadra, che lo considereranno parte integrante e titolare della squadra stessa.
E ritorno alla fretta: dedicarsi tempo è ascoltare e ascoltarsi. Rallentare permette meglio di gustare la reciproca presenza, permette di ritagliare uno spazio ove dialogare per comprendere le nostre storie-narrazioni. Insegnare ad attendere significa rispettare i propri e gli altrui tempi e così possiamo fornire quel giusto tempo perché si possa fare e rifare, si possa sbagliare e autocorreggersi. Ripetere aiuta a interiorizzare, a fare proprio ciò che sto realizzando in prima persona. E quante volte scopriamo che ciò serve a quei nostri studenti che palesano difficoltà cognitivo-apprendimentali? Solo se riconosco all’alunno con Bisogni Educativi Speciali il tempo necessario, gli posso permettere di fare le varie sequenze operative, cioè un’azione alla volta, per raggiungere il suo personale obiettivo.
Tutti amano apprendere e imparare, ma necessita fornire innanzitutto tempo.
Vivo la mia continua esperienza di insegnante specializzato come una persona adulta impegnata a ritagliare il “tempo giusto” per educare e formare, investendo il mio tempo nel rispetto dei tempi di ogni studente. Altresì dobbiamo interrogarci se, come educatori e adulti, il bisogno di confrontarsi – specie in questa situazione di emergenza che disorienta e fa paura – risulti essere essenziale. Io credo di sì, specialmente con tutti i ragazzi “grandi” delle superiori. Elaborare pensieri sia sulla fragilità umana sia sulla qualità della vita in questi tempi di neoliberismo globale, appare prezioso. Questo modello socio-economico ha mostrato il suo enorme limite pedagogico, in quanto la scuola ha recepito solo l’importanza dell’essere competitivo. Le tanto decantate acquisizioni di costanti competenze tecniche utili per il mondo del lavoro stanno facendo passare sullo sfondo la componente della collaborazione in primis. Ma che esempio diamo noi docenti se siamo i primi a non collaborare e a non agire in modo sinergico? Occorre confronto, dialogo, porsi domande filosofico-esistenziali, indi programmare tempi lunghi, indispensabili per gli studenti con maggiore fragilità.
«Ci vuole tempo per diventare grandi»: è una frase retorica? No, ma oggi è snobbata. Per prendersi cura occorre valorizzare il tempo e consolidare routine; necessitano ritmi lenti, ritagliati su misura. La scuola e i suoi ritmi di lavoro possono permetterselo? Se noi insegnanti non ci riappropriamo di tempi più lenti, rischiamo di non far sentire accolto lo studente, a maggior ragione se ha dei Bisogni Educativi Speciali: per crescere ci vogliono tempi lenti, distesi e scanditi.
Sin da piccoli si vuole evitare che il bambino “si annoi” e così gli proponiamo varie sollecitazioni facendogli interiorizzare la vituperata fretta e, non potendo fare tutto e bene in poco tempo, può insorgere il senso di inadeguatezza.
Occorre ridare valore al tempo-scuola, appassionarsi, coinvolgere, gioire insieme dei semplici traguardi conquistati. Anche arrabbiarsi appartiene all’umana condizione intrinseca, ma l’ansia di fare a tutti i costi quello che è previsto dal programma ministeriale, questa è una situazione indotta dal dover primeggiare ed essere competitivi, per raggiungere obiettivi prestabiliti. Ma le condizioni di partenza del gruppo classe sono state attentamente vagliate? L’accomodamento ragionevole rispetto alle effettive esigenze è stato preso in considerazione?
Non si tratta solo di istruire inculcando nozioni, ma di educare, valorizzando le esperienze di vita di cui i nostri ragazzi sono portatori in termini sociali e culturali. Mediante un’oculata regia, l’insegnante dovrebbe predisporre attività e ambienti, scegliere materiali e strumenti, nonché optare per quelle metodologie che gli permettano di valorizzare ciò che l’alunno già conosce. Per organizzare ambienti stimolanti che offrano variegate opportunità al gruppo classe necessita tempo.
Osservatore, regista e mediatore… solo così il docente può aiutare lo studente e accompagnarlo nella sua crescita formativa e personologica. C’è tempo per fare ciò? L’adolescente pieno di “cose” e “caricato” dai social, in realtà si sente vuoto, sperimentando al contempo nel quotidiano disattenzione da parte del mondo adulto e indifferenza. Questo non dà sicurezza. Inoltre, a causa di un futuro che retroagisce negativamente – in quanto non fornisce immagini di speranza -, il giovane studente si demotiva. Ne segue che servono relazioni interpersonali significative e cariche di senso, ma, per sostenere anche i bisogni emotivo-affettivi di ogni studente – studenti con disabilità inclusi e in primis –, occorre dare tempo, dedicare attenzione alla relazione, curare l’interazione mediante un’idonea comunicazione.
Spesso l’adolescente, scimmiottando l’adulto, perde parte della propria identità che si nutre del piacere dello stare con il gruppo dei pari con cui confrontarsi, dialogare, aiutarsi reciprocamente. Collaborare, ma anche entrare in conflitto cognitivo e relazionale con i compagni di classe, è prezioso per rivedere la propria posizione. Tutto ciò è utile ed è al servizio del lento processo di crescita verso un’età adulta, che vuole discernimento e senso di responsabilità.
Oggi è necessario far gustare il piacere del fare insieme, godere del lavorare insieme, attraverso la collaborazione e la condivisione. Sarà bello così entusiasmarsi tutti insieme per il risultato finale, qualunque esso sia, arrivandoci senza ansia, ma ciascuno con i propri tempi, i propri ritmi e le proprie capacità. L’autostima cresce e ci si rinforza nella reciprocità. Il ragazzo e la ragazza in formazione possono così scoprire le loro risorse e inclinazioni, vedere valorizzate le rispettive competenze, imparando, al contempo, anche ad accettare i propri limiti.
Puntare all’educazione vuol dire accettare di scommettere che è utile aprire mente e cuore. La mera componente cognitivo-apprendimentale non basta più. Per accompagnare un giovane verso una crescita dell’intera persona umana, serve un neopatto educativo globale… per un nuovo umanesimo. Occorre però essere persone adulte “mature” e integre, per formare le neogenerazioni di persone che sappiano partecipare dinamicamente alla vita comunitaria. I docenti e i genitori, rialleandosi, vorranno farlo?
Cambiamento… serve un cammino educativo al servizio del futuro che non fondi il suo itinerario sul semplice fare “qui ed ora”, ma sia caratterizzato da un largo respiro nel presente e da una visione a lungo termine. Serve una convergenza del mondo adulto, affinché l’educazione testimoni accoglienza e ascolto. Mai come oggi sento l’istanza cogente di avviare processi di cambiamento coraggiosi e degni di garantire ai nostri giovani il poter percorrere una strada che li porti a materializzare il loro futuro. Quel futuro che se va ancora disegnato e delineato, deve possedere caratteristiche precipue spendibili nella realtà esistenziale quotidiana.