È nato prima l’uomo o la musica? Parafrasando il noto detto dell’uovo e della gallina, ben si rende l’idea del legame che ci unisce alla musica, tanto che vien da pensare che il genere umano sia da sempre un tutt’uno con il ritmo, le note, la melodia.
Si tratta di una forma di comunicazione universale; quanti di noi ascoltano e apprezzano canzoni in lingua inglese anche se non ne comprendono il testo? Quanti le cantano alla meno peggio, pur di cantare, perché in qualche modo ne afferrano comunque il significato? Per non parlare delle colonne sonore che accompagnano i film, raccontandone la trama quanto i dialoghi dei protagonisti, oppure delle canzoni tradizionali legate ai singoli territori; e ancora, la musica classica, il jazz, il blues, il soul, il pop, il rock e chissà quanti altri generi che sto dimenticando, per arrivare a quelli più moderni come il rap. Un linguaggio capace di evocare ricordi, trasmettere emozioni e idee passando semplicemente per le orecchie, un’espressione emotiva che non ha necessariamente bisogno del canale verbale e di quello corporeo per arrivare al cuore.
Per questa sua versatilità, sin dai tempi antichissimi, la musica è servita per scopi educativi e terapeutici. Se il termine musicoterapia, infatti, risale agli Anni Trenta del Novecento, alcuni studi hanno dimostrato che già le prime civiltà umane cercavano la guarigione con una sorta di “incantesimo” nel quale i suoni avevano un ruolo dominante. Musica e medicina andavano di pari passo per i Sumeri, gli Assiri e gli Egiziani, lo stesso dicasi per la cultura cinese del terzo millennio avanti Cristo, che ci ha lasciato un libro dove l’unione dei concetti di Yin e Yang produce ritmo e salute. In India l’ascolto di un determinato tipo di musica ristabiliva l’equilibrio alterato dalla malattia, un concetto ripreso da Platone e Aristotele, entrambi convinti sostenitori della musica come strumento dal potere liberatorio, portatore di calma e serenità.
Le ricerche continuarono nel Medioevo, sostenute dai monaci, e durante il Rinascimento nelle Scuole di Salerno e Montpellier, ma fu alla metà del Settecento che il medico londinese Richard Brockiesby diede alle stampe il primo trattato di musicoterapia che si diffuse in tutta Europa, cui seguirono gli studi sull’impatto sonoro effettuati in Germania alla fine dell’Ottocento.
In quegli stessi anni, Biagio Gioacchino Miraglia la sperimentò per la prima volta in Italia, presso il morotrofio di Aversa. Interessante l’esperienza austriaca agli albori del Ventesimo Secolo, quando attività assimilabili alla musicoterapia erano praticate da donne musiciste di origine ebraica che operavano a titolo gratuito. Il resto è storia recentissima.
Nel nostro Paese, malgrado non esista la figura professionale del musicoterapeuta, quattro Decreti Ministeriali, dal 2005 al 2011, hanno riconosciuto la formazione degli operatori che si compie con un percorso di due-tre anni presso i Conservatori di Verona, Ferrara e l’Aquila.
Ormai considerata una disciplina paramedica, la musicoterapia viene impiegata in àmbito psicopedagogico, per migliorare l’apprendimento e favorire la creatività, e in quello clinico-psichiatrico, nelle case di cura e nei centri assistenziali; numerosi, inoltre, sono i centri specializzati sparsi lungo lo Stivale.
La musicoterapia produce benefìci sul piano fisico, emozionale, mentale, cognitivo e sociale, è efficace contro lo stress, riducendo il cortisolo, aiuta a dominare le paure e limita la percezione del dolore. Per questo trova applicazione anche sulle persone anziane affette da malattie come l’Alzheimer e il Parkinson, qualunque sia lo stadio della patologia, in quanto anche il semplice ascolto stimola le funzioni cerebrali, la memoria e i rapporti con gli altri.
Finora ne abbiamo parlato come terapia, come di un supporto alla riabilitazione, ma il connubio disabilità-musica va ben oltre e non di rado vede le persone con disabilità non quali soggetti da “curare”, ma come protagoniste e promotrici di esperienze nel mondo dei suoni.
Ci sono artisti leggendari come Ray Charles e Stevie Wonder, il nostro Andrea Bocelli, conosciuto in tutto il mondo, e Pierangelo Bertoli, un cantautore che ha inciso parole e note indimenticabili, fino ad Ezio Bosso che troppo presto ci ha lasciato.
Accanto ad esempi celebri – questi e molti altri che qui non cito -, ci sono storie meno conosciute ma altrettanto meritevoli di essere raccontate.
Una di queste comincia nel 1989, in un villaggio turistico, dove un gruppo di ragazzi con diverse disabilità motorie e la comune passione per la musica fonda i Ladri di Carrozzelle, una rock band “alternativa” dove si trova il modo di sopperire alle difficoltà e si riesce perfino a suonare la batteria, “dividendosi” lo strumento. Nel corso del tempo la formazione è cambiata per l’aggravarsi della malattia di alcuni componenti del gruppo, nuovi “ladri” si sono aggiunti e oggi la rosa dei musicisti si alterna a seconda dell’impegno richiesto. In oltre trent’anni vi hanno suonato più di cinquanta artisti, hanno all’attivo cinque album in studio, due album live, sei singoli e altrettanti video, sette dischi realizzati per progetti specifici.
Tra le tante partecipazioni televisive e le oltre 1.500 esibizioni, si contano tre concerti del Primo Maggio, quello in mondovisione per il Giubileo del 2000, l’apertura della serata finale del Festival di Sanremo nel 2017 e l’invito a suonare al Parlamento Europeo, il 18 maggio 2018, presentati come eccellenza italiana ed esperienza unica nel Vecchio Continente.
Ai concerti dal vivo che rimangono il fulcro dei Ladri, si sono aggiunte attività collaterali che rispondono ad un unico ambizioso progetto: la diffusione di un’immagine nuova delle diverse abilità. Passando per la musica, infatti, il messaggio culturale arriva nelle scuole, dove dal 1992 il gruppo ha incontrato più di 30.000 studenti di ogni età.
Oggi il progetto si è ampliato con laboratori musicali dedicati a ragazzi con ogni forma di disabilità; tra loro alcuni hanno raggiunto l’obiettivo di suonare nella band. L’abbiamo detto, per i Ladri di Carrozzelle perfino suonare la batteria è un gioco di squadra, l’imponente strumento non può essere gestito da una sola persona con disabilità, quindi i tamburi vengono suddivisi tra più musicisti. Una soluzione certo ingegnosa, ma non praticabile per tutti gli strumenti. Prendiamo la chitarra, ad esempio: come pizzicare le corde se gli arti superiori si muovono poco e male?
Ci ha pensato un musicista e attivista con disabilità, John Kelly, che ha inventato un controller che permette di suonare la sei corde anche alle persone che muovono una sola mano oppure hanno altri tipi di disabilità motorie. Della chitarra classica mantiene la forma, costruita in base alle esigenze del musicista, il cuore è un concentrato di tecnologia, grazie ad un software che si può interfacciare con i più comuni programmi per computer e dispositivi mobile con cui è possibile suonare gli accompagnamenti senza bisogno di una mano che diteggi gli accordi.
Il prototipo si chiama Kellycaster ed è stato prodotto in collaborazione con Drake Music, una società fondata a Londra negli Anni Ottanta, che vuole dimostrare (e ci riesce) che la produzione musicale non è preclusa ai disabili.
Se prima di Drake Music, dunque, la musica era soprattutto un intervento terapeutico per bambini e adulti con difficoltà fisiche o mentali, il panorama è cambiato e oggi le barriere invalidanti per i musicisti vengono abbattute, spesso in modo rapido ed economico.
Nel 2010 è sorto un laboratorio nel quale persone con e senza disabilità, principianti e professionisti del settore, lavorano fianco a fianco, per dare a tutti l’opportunità di suonare. Sono oltre mille i musicisti che fino ad oggi hanno usufruito delle idee di Drake Music e possono tenere in mano uno strumento che sembrava irraggiungibile.
Per niente facile era anche il sogno di Stefano Scala, musicista e produttore non vedente genovese, fresco vincitore del secondo premio all’Accessibility Hackathon 2020, per l’invenzione del primo analizzatore di spettro accessibile, strumento fondamentale della produzione musicale.
Fin da giovanissimo Scala è appassionato di musica ed elettronica, ha 15 anni quando comincia a lavorare in radio e si iscrive al conservatorio. Appena maggiorenne, apre uno studio di registrazione insieme a due amici e poco dopo ne fonda uno tutto suo, quello che ancora oggi gestisce. Parlando con i ragazzi non vedenti della sua esperienza, ci tiene a sottolineare come si debba essere competitivi, nel senso buono del termine, studiare e non smettere mai di aggiornarsi. E non sono solo parole, perché l’intera carriera di Paolo è all’insegna della formazione continua. Studia programmazione a Bologna, lavora per diverse band e suona il piano in giro per l’Italia, finché si dedica ai software con sintesi vocale e ad ogni congegno informatico in grado di consentire l’accesso alla musica a chi non vede. “Complice” la fidanzatina di allora, compra la batteria elettronica e il sintetizzatore. Lei legge le istruzioni, lui le traduce in Braille e passa notti in bianco a provare, imparando a memoria tutto quello che serve.
Certo erano altri tempi, non esisteva neanche Windows, bisognava costruire tutto da zero e questa abilità gli torna ancora utile, avendo anche sviluppato, insieme a un amico, un programma che gli consente di utilizzare la stragrande maggioranza della componentistica propria di uno studio di registrazione.
Tanto impegno è stato ripagato da molte soddisfazioni: la possibilità di lavorare alla RAI come arrangiatore, comporre colonne sonore per la pubblicità, radio private, manifestazioni e gruppi emergenti. Gli attimi impagabili ed esaltanti, però, rimangono quelli degli inizi, «nei quali tu riesci a utilizzare una cosa che ti sembrava impossibile fino al giorno prima e che da dominio di tutti diventa dominio anche tuo», afferma Stefano. Come dire, «i sogni sono una traccia audio in stop. Sta a voi premere play».
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