Il contrasto alla violenza nei confronti delle donne con disabilità deve considerare sia la violenza di genere, che scaturisce dallo squilibrio di potere tra uomini e donne, sia la violenza abilista, ingenerata dallo squilibrio di potere tra le persone con disabilità e le altre. Infatti, le donne con disabilità, essendo simultaneamente sia donne che persone con disabilità, sono esposte ad entrambi i tipi di violenza.
Nei giorni scorsi abbiamo avuto modo di occuparci, su queste stesse pagine, di un recente fatto di cronaca accaduto ad Asola, un Comune in provincia di Mantova. Torniamo ad occuparcene per mettere in luce un paradosso insito alle attuali modalità di risposta alla violenza.
Il fatto cui facciamo riferimento riguarda una donna con disabilità motoria che, per quattro anni, ha subito maltrattamenti e violenze fisiche ad opera della sorella convivente. Quando gli anziani genitori (anch’essi conviventi) uscivano di casa, la donna con disabilita subiva maltrattamenti, mortificazioni, minacce di morte e percosse da parte della sorella, determinata a “persuaderla” a trasferirsi in una struttura per disabili. La vittima non ha mai chiesto aiuto.
A dare una svolta alla vicenda è stata un’operatrice inviata dal Comune per aiutare la donna con disabilità nell’igiene personale che, notando i lividi sparsi su tutto il corpo della donna, ha segnalato il caso ai Servizi Sociali i quali, a propria volta, hanno avvertito i Carabinieri e la Procura di Mantova. Questo ha messo in moto la procedura che ha portato, in meno di ventiquattro ore, all’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per l’autrice dei reati.
La donna con disabilità, informata del procedimento, ha trovato ospitalità presso una struttura per persone con disabilità nella quale i Servizi Sociali del Comune hanno disposto i supporti necessari per la sua permanenza.
La vicenda è stata riportata da diversi media locali senza particolari varianti (ad esempio, il 24 ottobre, su «L’Altra MantovA», «OglioPoNews», «Gazzetta di Mantova», «La Voce di Mantova», «La Provincia di Cremona» e il 25 ottobre su «Prima Mantova»).
Il taglio narrativo è sempre lo stesso: la vicenda è presentata come un caso di violenza domestica, il giudizio di condanna è espresso chiamando l’aggreditrice “aguzzina” o “strega”. Si specifica che la vittima è disabile sin dalla nascita, e che è «costretta su una sedia a rotelle» (una sedia a rotelle, dunque, mai è presentata come “strumento di libertà”, come invece viene solitamente percepita da chi la utilizza, ma come “strumento di costrizione”).
Si intuisce un apprezzamento per la tempestività dell’intervento delle Istituzioni («Una storia di violenza che si è consumata all’interno delle mura domestiche, ma le Istituzioni appena venute a conoscenza della situazione non hanno taciuto», è scritto nell’occhiello dell’articolo pubblicato su «La Provincia di Cremona»). Si sottolinea che «la vittima ha sempre nascosto tutto, non ha mai chiesto aiuto “al mondo esterno”, né tanto meno ha mai fatto richiesta di accesso al Pronto Soccorso», ma non se ne spiegano i motivi.
La donna non riconosceva le violenze come tali? Oppure non parlava perché aveva paura di ritorsioni? Dipendeva dalla sorella per l’assistenza personale e temeva che, se avesse raccontato a terzi quanto stava succedendo, questa non l’avrebbe più aiutata? Non aveva la possibilità di comunicare con terzi? Non era a conoscenza dell’esistenza dei servizi antiviolenza? Oppure era informata dell’esistenza di tali servizi, ma non erano accessibili per lei? Nessuno di questi interrogativi è sollevato negli articoli esaminati.
Nel complesso chi legge queste narrazioni ne esce rassicurato/a. La vittima è riuscita a raccontare quanto stava accadendo. Il sistema ha funzionato e ha risposto prontamente. La colpevole è finita in carcere. I Servizi Sociali del Comune hanno individuato una struttura per persone con disabilità disponibile ad ospitare la vittima e fatto quanto necessario per la sua permanenza. Dunque, tutti e tutte felici? Forse no.
La protagonista di questa vicenda è una donna con disabilità che, pur di permanere nella propria abitazione, per anni ha subìto in silenzio le violenze della sorella che voleva costringerla a trasferirsi in una struttura per persone con disabilità, e ora che la sorella è stata arrestata, dov’è finita lei? Ovvero, la violenza è davvero finita? Possiamo sperare che almeno i maltrattamenti, le umiliazioni e le violenze fisiche siano davvero cessati. È invece più problematico escludere che quella stessa donna sia al riparo dalle violenze sistemiche che solitamente caratterizzano le strutture per le persone con disabilità. Vale a dire il doversi assoggettare a regole che non si è contribuito a definire, e che spesso sono più orientate a soddisfare le esigenze organizzative delle strutture stesse, che non a garantire il diritto all’autodeterminazione delle persone con disabilità che vi sono ospitate.
L’articolo 19 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’Italia con la Legge 18/09), impegna gli Stati che l’hanno recepita ad assicurare che «le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione». Qualcuno/a ha chiesto a questa donna se desiderava vivere in una struttura per persone con disabilità? Oppure se preferiva ricevere i necessari supporti per continuare a vivere con i propri genitori? Oppure, ancora, se voleva essere supportata per emanciparsi dalla famiglia di origine trovando un’altra sistemazione inclusiva e di suo gradimento? Sono state considerate sistemazioni diverse dalla struttura per persone con disabilità? Se è stato fatto, negli articoli menzionati non ve ne è staccia.
La protagonista di questa vicenda ha subito un tipo di violenza abilista, un tipo di violenza connessa alla circostanza di essere una persona con disabilità. Il sistema istituzionale, sia pure dopo quattro anni, è riuscito ad individuare il fenomeno e a porre fine al comportamento violento, reiterato e continuativo, sanzionando colei che lo aveva posto in essere. Ciò nonostante lo stesso sistema istituzionale non è stato in grado di offrire alla vittima una risposta personalizzata, diversa dalla struttura per persone con disabilità alla quale quella stessa donna aveva cercato di sottrarsi.
È abbastanza paradossale che la risposta alla violenza abilista sia ispirata a quello stesso approccio abilista incapace di cogliere la valenza segregante, marginalizzante e discriminatoria dei luoghi dedicati alle persone con disabilità.
È disturbante, ma non sorprende affatto, l’atteggiamento del tutto acritico dei media nel rilanciare la notizia, giacché anch’essi sono permeati dalla cultura abilista. In contrasto con una convinzione ancora molto diffusa, non è vero che la struttura per persone con disabilità sia l’unico percorso adatto a loro, né che sia inevitabile, e neppure quello preferibile. Prova ne sia che solitamente le persone con disabilità quando possono, e finché gliene viene data la possibilità, preferiscono integrarsi nelle rispettive comunità.
In conclusione, riguardo alla vicenda presa in esame, possiamo solo augurarci che la soluzione individuata sia provvisoria e funzionale a dare alla donna in questione il tempo di decidere «dove e con chi vivere». La risposta alla violenza abilista non può essere essa stessa abilista.
Per approfondire ulteriormente il tema della violenza nei confronti delle donne con disabilità, accedere al sito di Informare un’h, alla Sezione intitolata La violenza nei confronti delle donne con disabilità. Più in generale, sul tema Donne e disabilità, oltre a fare riferimento al lungo elenco di testi da noi pubblicati, presente a questo link, nella colonnina a destra dell’articolo intitolato Voci di donne ancora sovrastate, se non zittite, ricordiamo anche la Sezione Donne con disabilità, sempre nel sito di Informare un’h.