Ho letto in «Superando.it» l’articolo dedicato ad alcuni aspetti critici dell’inclusione scolastica, scritto dal professor Giovanni Maffullo, che ha avuto il coraggio di affrontare senza infingimenti alcuni temi che condizionano la qualità dell’inclusione stessa, specie nelle scuole secondarie di secondo grado, e gliene sono grato [“È vera inclusione solo se serve concretamente alla crescita esistenziale”, N.d.R.].
Innanzitutto concordo con lui circa l’imperdonabile assenza di formazione iniziale di tutti i docenti di scuola secondaria sulle didattiche inclusive e addirittura sulla didattica pura e semplice. Infatti, come Associazioni siamo riusciti a fare introdurre nei nuovi programmi dei corsi di specializzazione del 2010 trentuno Crediti Formativi Universitari nella formazione iniziale per tutti i docenti di scuola dell’infanzia e primaria. Eravamo pure riusciti a fare inserire nel Decreto Legislativo 59/17 i FIT (Formazionale Iniziale Tirocinio), ovvero il triennio di formazione, insegnamento e tirocinio per la formazione iniziale dei docenti di scuola secondaria di primo e secondo grado, in cui erano previsti altri sessanta Crediti Formativi Universitari per la specializzazione, parte dei quali obbligatori anche per tutti i docenti curricolari, ma la novità è stata immediatamente abrogata dal Ministro successivo e non più ripresa.
Ovviamente senza una formazione iniziale sulla didattica e sulle didattiche speciali i docenti curricolari, specie quelli delle scuole secondarie di secondo grado, non sono in grado di gestire casi assai complessi e delegano tutto ai soli colleghi di sostegno i quali, non avendo una formazione iniziale approfondita sulle didattiche speciali, si riducono spesso a fare le “badanti” come denunciato da Giovanni Maffullo.
Come Associazioni abbiamo chiesto e continueremo a chiedere al Ministero di ripristinare i contenuti innovativi del Decreto Legislativo 59/17 e di attuare l’articolo 12 del Decreto Legislativo 66/17 che aumenta di altri sessanta Crediti Formativi Universitari la formazione iniziale dei docenti per il sostegno, buona parte dei quali crediti eravamo riusciti a rendere obbligatori anche per i colleghi curricolari. Infatti, solo con questa formazione iniziale, obbligatoria e permanente in servizio sarà possibile un’effettiva presa in carico del progetto inclusivo da parte di tutti i docenti.
E l’obbligatorietà della formazione in servizio deve riguardare anche i Dirigenti Scolastici, come stabilito dall’articolo 13 del Decreto Legislativo 66/17, compresa l’organizzazione di qualità dell’inclusione scolastica, talora ancora carente, che condiziona tanto negativamente l’andamento di molte scuole.
Ma veniamo al punto più dirompente dell’articolo di Maffullo: è legittimo portare talora l’alunno con disabilità nelle scuole superiori nell’“aula di sostegno” o svolgere attività individuali senza la necessaria presenza permanente in classe?
Alcuni anni fa i professori Canevaro, Ianes e altri attuarono una ricerca dalla quale risultava inequivocabilmente che, mano a mano che si saliva dalla prima classe di scuola superiore verso l’ultima, il numero di alunni con disabilità che uscivano dalla classe per recarsi in un’altra aula da soli con il docente per il sostegno aumentava notevolmente. Giustamente la ricerca mise in luce questa anomalia che inficiava la natura stessa dell’inclusione. Si proponeva dunque una migliore formazione dei docenti sull’inclusione, per porre termine a tale violazione della lettera e dello spirito della legge.
E tuttavia nessuno ha mai negato che sia possibile avere dei rapporti individuali o per piccoli gruppi per gli alunni con disabilità e i loro compagni. Tutto dipende da ciò che viene programmato nel PEI (Piano Educativo Individualizzato). Infatti, da sempre vi sono stati casi – regolarmente previsti nei PEI – di alunni che per qualche ora alla settimana o al mese si recassero fuori dalla classe per attività di rinforzo o diverse da quelle ufficiali, come del resto previsto dall’articolo 16, comma 1 della Legge 104/92. Così, ad esempio, dopo la partecipazione in classe ad una lezione in cui i docenti curricolari spiegano gli elementi basilari di un argomento in modo tale che, con l’aiuto del collega per il sostegno, anche l’alunno con disabilità riesca a comprenderne il senso, mentre i compagni rimangono in classe per lo svolgimento della lezione approfondita a livello di scuola superiore, l’alunno con disabilità può recarsi a rinforzare da solo con il docente per il sostegno quanto aveva appreso o a svolgere le altre attività previste solo per lui.
Il compianto amico Mario Tortello era solito distinguere tra lo svolgimento del compito apprenditivo da parte di tutti gli alunni di una classe dal senso del compito che ciascun alunno deve maturare, ivi compreso l’alunno con disabilità, che può avere acquisito solo un senso assai marginale, ma che gli consenta di sentirsi incluso nell’apprendimento di quel compito. Su ciò si basa molto della didattica cooperativa che, realizzata in classe, può proseguire poi in attività individuali di ciascun alunno e in particolare anche di quello con disabilità.
Certo, se manca una seria formazione iniziale e permanente in servizio, il docente curricolare delega tutto al collega per il sostegno e questi si ritrova talora a diventare uno “pseudo-tuttologo”, dal momento che ciascun docente curricolare pretende che egli insegni all’alunno, in un’aula separata, i contenuti delle singole discipline, delle quali normalmente il docente per il sostegno non ha alcuna conoscenza.
Gli estensori della Legge 104/92, costretti dalla Sentenza 215/87 della Corte Costituzionale a garantire l’inclusione degli alunni con disabilità nelle scuole superiori, essendo ancora poco preparati a ciò, avevano trovato una sorta di ripiego, introducendo nell’articolo 13, comma 5 la norma che i docenti per il sostegno dovessero essere scelti nell’ambito di quattro aree disciplinari: linguistica, scientifica, tecnologica e psicomotoria; questa norma facilitò apparentemente la soluzione del problema di come insegnare le diverse discipline nelle scuole superiori; infatti, in moltissime scuole agli alunni con disabilità complesse venivano assegnati quattro docenti per il sostegno, ciascuno per una delle quattro aree disciplinari. Così, di fatto, l’alunno si trovava in una classetta speciale e i docenti curricolari non si interessavano più di lui.
Di fronte a questa palese violazione della normativa inclusiva, come Associazioni abbiamo chiesto e ottenuto l’abrogazione dell’articolo 13, comma 5 citato, attuata con la Legge 128/13. Così i docenti curricolari si sono trovati di fronte al problema di dover insegnare anche agli alunni con disabilità le loro discipline e hanno trovato il nuovo ripiego di delegare al docente per il sostegno tale didattica, cosa effettivamente assurda.
Come uscire, dunque, da questo ginepraio? Come Associazioni abbiamo chiesto quanto detto sopra per la formazione iniziale di tutti i docenti e per un approfondimento dei docenti specializzati sulle didattiche inclusive, con particolare riguardo alle tipologie di bisogni educativi più specifici, quali quelli derivanti dalla cecità, dalla sordità, dall’autismo e dalle disabilità intellettive. In più , onde evitare la continua emorragia dei docenti specializzati verso cattedre disciplinari dopo il quinquennio obbligatorio su sostegno, abbiamo chiesto la creazione di apposite classi di concorso per la specializzazione per ognuno dei quattro ordini e gradi di istruzione. In quel caso le nostre proposte sono state male interpretate, accusandoci di voler “medicalizzare l’inclusione scolastica” e di togliere la caratteristica di docenti agli insegnati per il sostegno.
Invece noi riteniamo che i docenti per il sostegno debbano laurearsi in Scienze della Formazione, ma debbano specializzarsi nelle didattiche inclusive, proprio per essere di sostegno ai colleghi curricolari nelle modalità di insegnamento delle discipline anche agli alunni con disabilità, che sono alunni di tutti i docenti e non dei soli docenti per il sostegno.
Se riuscisse a passare questo orientamento, potremmo avere un rapporto più sereno e cooperativo tra docenti curricolari e specializzati e tra i primi e gli alunni con disabilità, nonché tra questi e i compagni. Ciò eviterebbe pure che l’inclusione si riducesse solo a una socializzazione, mentre si potrebbe realizzare anche la crescita negli apprendimenti, come espressamente previsto quale obiettivo inclusivo dall’articolo 12, comma 3 della Legge 104/92.