Se le persone con disabilità oggi hanno spazi in più per curarsi negli ospedali lo devono anche a Dama (Disabled Advanced Medical Assistance [“Assistenza medica avanzata alle persone con disabilità”, N.d.R.], un progetto del 2000 dell’Ospedale San Paolo di Milano, per consentire alle persone con disabilità grave di essere curate per la loro patologia del momento e non per la loro disabilità, che poteva non avere nulla a che fare con il malessere momentaneo.
Io c’ero. Ho visto nascere la struttura che quest’anno ha ricevuto l’Attestato di Civica Benemerenza del Comune di Milano all’Ambrogino d’Oro. Voglio dunque raccontare cos’è Dama dal di dentro. [Antonio Giuseppe Malafarina è presidente onorario della Fondazione Mantovani Castorina, che sostiene il progetto Dama sin dagli inizi, N.d.R.].
L’11 settembre 2001, dunque, ero lì, a fare volontariato. Io, persona con disabilità gravissima ad aiutare altre persone in condizioni analoghe. Con un ospedale attorno, la Regione Lombardia, la LEDHA (la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità che costituisce la componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e l’appoggio dell’Università Statale di Milano, a volere quel servizio dove chiamavi al telefono, parlavi col personale specializzato e ti fissavano una visita anche se eri una persona accompagnata da caregiver – allora si chiamavano semplicemente familiari -, perché tu sapevi solo strillare, o restare chiuso a riccio nella tua disabilità intellettiva e neuromotoria.
Quello era il tuo modo di comunicare, di esprimere il dolore. Fra il comprendere come ti sentissi e quale fosse il tuo malessere ci voleva la giusta intuizione. Bisognava ascoltarti. E negli ospedali in troppi non sapevano cosa fare. Intimamente penso che molti non volessero stare a sentirti. Ti curavano in qualche maniera, se tutto andava bene.
Lascio dunque la parola al fondatore del servizio Angelo Mantovani, chirurgo ora in pensione, che ricorda così la nascita dell’acronimo Dama: «In realtà è venuto prima il logo, con la carrozzina sullo sfondo quadrettato, ma tant’è…».
Su quali presupposti è nato Dama?
«Il punto di partenza di Dama era di rispondere in modo adeguato e tempestivo all’allarme che la famiglia raccoglieva dalla persona con deficit cognitivo e di comunicazione, con l’obiettivo di comprendere il problema, identificarne la natura e provvedere in modo rapido al trattamento all’interno della struttura ospedaliera. Per raggiungere questo fine sono state all’inizio costituite delle corsie preferenziali all’interno del pronto soccorso, identificando in pratica con un codice d’urgenza le persone con disabilità grave o gravissima con deficit cognitivo o di comunicazione, cui veniva garantita una valutazione in tempi brevi».
Quali sono state le difficoltà incontrate?
«Soprattutto all’inizio di carattere culturale all’interno dell’ospedale, date dalla difficoltà di riconoscere il bisogno particolare delle persone fragili, delle loro famiglie e la complessità dei problemi. In questo senso il vero primo successo, per quanto mi riguarda, è stato l’apposizione fuori dai singoli reparti della targhetta: “Questa unità partecipa a progetto Dama”».
E dopo quello quali altri successi?
«È difficile per me ora perché ogni passo in avanti è stato un successo. In ordine direi: la costituzione di un partenariato, fortemente voluto da Edoardo Cernuschi, allora presidente della LEDHA, tra la Facoltà di Medicina dell’Università Statale di Milano, la Regione Lombardia e l’Azienda Ospedaliera San Paolo. Successivamente il riconoscimento da parte della Regione Lombardia di un progetto triennale sostenuto da un finanziamento importante, che ha permesso la costituzione di un’équipe sanitaria dedicata».
Cosa pensa dell’attuale riconoscimento all’interno dell’Ambrogino d’Oro?
«Per quanto riguarda il premio credo sia il riconoscimento della ventennale attività fin qui svolta soprattutto in questo periodo così difficile che si sta attraversando».
Questa risposta, apparentemente distaccata, mi riconduce a quello che ho sempre avvertito essere uno dei pensieri sottostanti di Dama: non siamo qui per fare gli eroi, ma per fare il nostro mestiere. Saremo i primi, non certo eroi.
La parola ora a Filippo Ghelma, attuale direttore del servizio. A lui do del tu: sono di famiglia e le famiglie hanno i loro rituali.
Filippo con che spirito sei entrato a far parte di Dama?
«Adesso mi viene da sorridere… sarei scappato volentieri. Mi sentivo impreparato e inadeguato, perché non conoscevo per nulla il mondo della disabilità, non l’avevo studiato dal punto di vista medico e non l’avevo di fatto quasi mai incontrato. Ma non potevo dire di no a Edoardo Cernuschi e al mio maestro Angelo Mantovani, che mi ha sempre insegnato a non lasciare mai il campo di battaglia».
Che cosa hai trovato?
«Ho trovato di tutto. Persone bellissime, talvolta davvero difficili da avvicinare. E le loro famiglie, con i pregi e i difetti che è normale trovare negli incontri di vita di tutti i giorni. Credevo fosse un mondo di sola sofferenza, invece ho scoperto una realtà molto “colorata” e variegata che mi ha arricchito come medico e come persona. Ho dovuto ricredermi su molte cose e ho voluto approfondire il tema dei diritti delle persone. In particolare il diritto alla salute e all’autodeterminazione, tema davvero complesso per le persone con grave disabilità intellettiva».
Quali sono stati i tuoi inciampi?
«Ho trovato le difficoltà di ogni medico, che deve convivere spesso nell’incertezza di aver fatto le scelte giuste per il suo paziente. Nel caso della grave disabilità, essendoci pochissima letteratura scientifica, spesso questa difficoltà è amplificata dall’inapplicabilità di linee guida e altri fattori, che rendono necessario fare scelte o utilizzare soluzioni che si scostano dagli standard procedurali della moderna medicina».
Quali i tuoi successi personali?
«Il successo più grande è stato quello di avere imparato a “parlare” con pazienti che non comunicano quasi mai verbalmente. Ad ottenerne la fiducia, a comprendere il loro riconoscimento per quanto ricevuto dalla nostra équipe… molto emozionante».
Com’è andata durante la prima fase della pandemia?
«Difficile da dire. Il passaggio da una medicina che tende a essere centrata sulla persona a una medicina dell’emergenza, che necessariamente semplifica e standardizza, aumenta le difficoltà delle persone con disabilità. Le rende ancor più invisibili. Sono pochissime le persone con disabilità che sono state accompagnate in ospedale. Non posso immaginare che il motivo sia stata una resistenza al contagio. Con l’inizio della seconda ondata, ne abbiamo visti molti di più».
Quali soluzioni avete adottato?
«Abbiamo potenziato il counseling telefonico per cercare di risolvere i problemi al di fuori dell’ambiente ospedaliero. Abbiamo mantenuto l’attività ambulatoriale per le prestazioni non differibili e abbiamo utilizzato i locali del nostro day hospital per fare attività di pronto soccorso “Covid free”, onde evitare l’accesso all’area dell’urgenza».
Come sta andando adesso?
«Dopo i ricoveri dell’inizio della seconda ondata pandemica, sono nuovamente calati gli accessi dei nostri pazienti. Difficile spiegarne il motivo, e ci vorrà tempo per ricostruire quanto accaduto su numeri concreti, per una popolazione che nel nostro Paese è davvero invisibile anche alle analisi statistiche».
Che cosa vi serve?
«Dama ha bisogno di visibilità, per dare visibilità ai problemi dei nostri pazienti. Abbiamo bisogno di attenzione, perché si deve pianificare il futuro, fare un piano di “ricambio generazionale” del personale, consolidare le basi su cui si lavora. Siccome il modello organizzativo Dama funziona ed è efficiente, c’è il rischio di essere dati per scontati. Sarebbe un errore drammatico. Ci serve aiuto per far nascere altri Dama in altre realtà, in modo organizzato e ragionato».
Dama può diventare un modello nazionale?
«Deve diventare il modello su cui costruire una rete Dama nazionale. È un percorso già iniziato: il modello Dama è stato esportato a cura della nostra equipe in almeno quindici altri ospedali italiani e altrettanti stanno lavorando per l’implementazione».
Con quali vantaggi?
«Il vantaggio di una rete è evidente: si possono studiare protocolli comuni partendo dalle esperienze di tutti, si possono reclutare centri che già si occupano di problemi specifici e che troverebbero i vantaggi del supporto dei Dama ospedalieri, che a loro volta avrebbero degli avamposti ad arricchire l’offerta. È la vera sfida: non solo altri Dama, ma tanti Dama in rete tra loro».
Cosa significa per te il riconoscimento ricevuto?
«È una grande soddisfazione che riconosce il lavoro fatto in questi anni da tutta l’équipe e da tutte le persone che ci hanno lavorato, anche se non lavorano più con noi. Volontari compresi. Lo è ancor di più perché il premio è stato proposto da famiglie dei nostri pazienti che attestano l’impegno a voler cambiare in meglio. Spero che sia l’occasione per dare visibilità a persone spesso invisibili, quali i nostri pazienti e le loro famiglie».
Questo è Dama, che scrivo così perché una certa scuola insegna a scrivere gli acronimi in questo modo. Sono fatto strano, per questo sono parte di questa squadra di persone per cui “la diversità è diversa”. Ognuno è diverso nell’esercizio dei comuni diritti.