Se avessero chiesto al leggendario “uomo della strada” quale criterio di precedenza sarebbe stato giusto adottare per le vaccinazioni anti-Covid-19, probabilmente la risposta sarebbe stata «prima i vaccinatori e il personale sanitario in senso lato, poi chi corre rischi maggiori, poi tutti gli altri a scalare».
L’“uomo della strada” non si esprime solitamente con un linguaggio tecnico, si basa sul buon senso, virtù tipica, secondo l’antica tradizione giuridica italica, del buon padre di famiglia.
Altrettanto non fanno talvolta uomini politici, alti e bassi burocrati, commissari più o meno straordinari, esperti di svariate discipline mediche e statistiche, opinion maker e follower.
E così ci si dimentica delle persone con disabilità, non le si nomina neppure, poi se ne accenna vagamente e parzialmente. Questa vaghezza e questa parzialità lasciano ampia libertà di interpretazione a chi segue nella catena di comando. Ci si ricorda alfine delle persone con disabilità che vivono nelle strutture e ci si scorda di quelle che vivono a casa con i loro caregiver.
I termini più in voga in questi discorsi sono “persone fragili” e “resilienza”. Le persone con disabilità gravissima che sopravvivono e talvolta vivono accettabilmente bene, utilizzando un ventilatore polmonare domiciliare, e i caregiver che le assistono amorevolmente rappresentano la personificazione di fragilità e resilienza.
La pandemia in corso ha demolito quel per noi troppo poco di rete assistenziale che esisteva. Telemedicina – nel senso riduttivo del termine che equivale a una telefonata – con il medico di libera scelta che ante-Covid-19 passava una volta alla settimana in visita domiciliare; assistenza domiciliare integrata praticamente dissolta nel nulla per il rischio contagio; rianimatore gentilmente disponibile a passare a fine turno (anche di 12 ore), ma il quale avverte che non si tratterebbe di un “rischio zero”, malgrado lo scafandro da astronauta che indosserebbe.
Purtroppo le persone con disabilità dipendenti da un ventilatore polmonare non possono assolutamente permettersi di contrarre il Covid-19. E altrettanto vale per i loro caregiver, che tra l’altro:
° fanno “turni di lavoro” di 12-18 ore;
° non usufruiscono di ferie, riposi compensativi ecc. ecc.;
° hanno spesso un’età ragguardevole;
° litigano tutti i giorni con la burocrazia;
° sono tagliati fuori dal mondo mancando loro il tempo per telefono, mail, messaggi, whatsapp, twitter;
° hanno una modesta aspettativa di vita (diciassette anni in meno, secondo Elizabeth Blackburn, premio Nobel per la Medicina 2009);
° sono affetti da svariate patologie “professionali”, quali mal di schiena, depressione, disturbi del sonno, gastrite ecc. Nel caso di chi scrive anche una moderata demenza senile.
Queste mie riflessioni, quindi, non possono che concludersi con un appello a vaccinare “presto e bene” i “fragili” e i “resilienti”.