Premesso che la presenza nella nostra scuola degli alunni con BES (Bisogni Educativi Speciale) è strutturale, tenendo conto che abbiamo una legislazione vigente all’avanguardia a livello europeo e mondiale, vorrei fare emergere taluni elementi di criticità organizzativo-gestionale e normativi che affliggono la scuola e in modo particolare il secondo ciclo (scuola secondaria di secondo grado).
Il primo gap che emerge in termini organizzativi, ovvero di “gestione” dei percorsi formativi degli studenti con disabilità, è connesso con il fatto che esiste una frattura netta fra primo e secondo ciclo, sia a livello di continuità didattico-educativa, sia a livello giuridico-normativo. Sappiamo, al contempo, che ciò mette in difficoltà le scuole superiori, in quanto l’obbligo scolastico termina proprio nella scuola secondaria di secondo grado, cioè al secondo anno delle “superiori” con una certificazione di competenze che va rilasciata ad ogni studente. Ma procediamo con ordine.
Esiste una normativa, anche grazie ai recenti Decreti Legislativi 62/17 e 66/17, applicativi della Legge 107/15, in forza della quale gli studenti con disabilità, pur seguendo un percorso didattico-disciplinare differenziato, frutto di una proposta formativa individualizzata e personalizzata, di fatto possono conseguire la cosiddetta licenza di terza media, ovvero essere promossi con una certificazione di competenze e un titolo di studio identico a quello dei loro compagni, a prescindere dal percorso didattico seguito: semplificato per obiettivi minimi o differenziato. Non appena, però, giungono alle scuole superiori, la normativa cambia: se seguono un percorso differenziato, ai sensi dell’Ordinanza Ministeriale 90/01, non possono conseguire il corrispondente titolo di studio ( il percorso differenziato può essere seguito sin dal primo anno delle superiori); in altri termini, il superamento dell’Esame di Stato in classe quinta (alias “Esame di Maturità”) porta all’elaborazione di una mera certificazione di competenze per quegli studenti che non raggiungono gli obiettivi minimi, previsti nelle varie materie disciplinari.
Orbene, mi chiedo com’è possibile pretendere che uno studente con disabilità e una famiglia accettino la prevista “valutazione differenziata” durante il primo anno di frequenza delle superiori, se sino al precedente anno scolastico hanno conseguito voti che erano equipollenti a quelli dei loro compagni. Come possono le persone rielaborare mentalmente il fatto che ora “la musica è cambiata”? In altre parole, come possono essere accompagnati i genitori nel lento ma inesorabile processo di accettazione che il loro figliolo con disabilità non ha un funzionamento cognitivo-apprendimentale comparabile a quello del gruppo dei pari? Come la loro sofferenza può essere accompagnata nel tollerare una situazione di diversità dei percorsi didattici, per poi accettare la valutazione differenziata?
Occorre dare tempo e, se possibile, riformulare la normativa connessa con il biennio delle superiori. In seno ad alcuni Istituti Superiori, chi scrive sollecita – allorquando faccio formazione,(e ciò talvolta viene tollerato-accettato dai docenti curricolari – che nel corso del biennio, trattandosi di obbligo scolastico, si estenda idealmente e per quanto possibile pragmaticamente la normativa che viene applicata alle scuole medie, cioè nella secondaria di primo grado: si differenziano i contenuti, pur mantenendoli agganciati alle varie discipline, considerandoli afferenti ai cosiddetti obiettivi minimi, indi si procede alla realizzazione di verifiche e valutazione in base al percorso individualizzato e personalizzato ritagliato su misura per lo studente con disabilità (si preservano i contenuti essenziali di ogni materia).
Nel caso poi – come capita – in cui la differenziazione sia distante dagli obiettivi minimi (OSA-Obiettivi Specifici di Apprendimento e PECUP-Profilo Educativo, Culturale e Professionale in parte non allineati con il gruppo dei pari e con i programmi ministeriali), si procede alla valutazione comparata con il resto della classe ovvero si danno dei debiti formativi a settembre. Dando questi debiti in una o più materie (al primo e al secondo anno di frequenza delle superiori, scuola secondaria di secondo grado) si manda un segnale forte, in primis ai genitori dello studente. Così facendo, non solo tengo agganciato alla programmazione di classe lo studente con disabilità, -grazie al fatto che abbiamo progettato un percorso che valorizzi i nuclei fondanti di ogni disciplina – ma, al contempo, il Consiglio di Classe comunica che l’alunno è in difficoltà per quanto attiene il processo cognitivo-apprendimentale e che non ce la potrà fare a conseguire il diploma di scuola superiore. In altri termini, si condivide con la famiglia, in base alle osservazioni rilevate sul “campo” e a evidenti dati (la scuola si basa sull’evidenza), che l’Io reale dello studente, di quello studente, fatica a raggiungere quelle “performance minime” richieste in talune materie ovvero non possiamo chiedergli di conquistare gli agognati obiettivi minimi. Si fa pertanto emergere che vi sono delle esigenze cognitivo-apprendimentali che vanno attenzionate ulteriormente e non ignorate.
Nel frattempo si opera a livello interistituzionale: si palesa cioè agli specialisti della Sanità, oltreché ai genitori, che il ragazzo lo si vuole aiutare nel corso del biennio, ma poi, per il percorso didattico-disciplinare che diverrebbe più complesso e articolato nel corso del triennio, sarebbe necessario ricorrere a una valutazione differenziata, ovverosia non rilasciare il titolo di studio (alias diploma con valore legale), ma solo un attestato di frequenza con annessa certificazione delle competenze acquisite.
A mio avviso quindi, al biennio delle superiori occorrerebbe applicare la normativa valida per il primo ciclo (da valutare sempre “caso per caso” e di concerto) e ciò comporterebbe un immediato vantaggio: i docenti potrebbero conoscere e lavorare in chiave inclusiva con gli studenti con disabilità che sono in maggiore difficoltà, senza dover pensare di proporre una valutazione differenziata sin dal primo anno di superiori. In tal modo si otterrebbe un duplice beneficio, sgravando da un lato il corpo dei docenti dall’assumersi una’inopportuna responsabilità (il contesto familiare potrebbe, come di norma accade, non essere pronto ad accettarla, ciò che potrebbe portare a incomprensioni e palesi tensioni relazionali), permettendo dall’altro lato ai genitori di rielaborare la neo-situazione contingente.
Cosa succederebbe? I docenti del Consiglio di Classe lavorerebbero in maniera più “distesa” e cercherebbero di capire meglio le potenzialità intrinseche dell’alunno da sviluppare sul campo; la famiglia diverrebbe più consapevole – nel corso del biennio – del reale funzionamento nei confronti degli apprendimenti formali del loro figliolo, ovvero non negherebbe l’evidenza che lo studente non può sostenere in termini cognitivi tutto il percorso formativo previsto per il triennio.
Procrastinando poi al termine dell’obbligo scolastico il dover ricorrere alla valutazione differenziata, si avrebbero alcuni vantaggi:
– si eviterebbero i palesi e insanabili conflitti fra le due agenzie educative scuola e famiglia, ovvero dando ad entrambe del tempo si potrebbe meglio ponderare l’evidenza dei risultati del biennio;
– nel corso dei primi due anni delle superiori si costruirebbe un “ponte” ovvero si potrebbe realizzare una “terra di mezzo” ove confrontarsi sul progetto di vita dello studente con disabilità e non solo sul mero successo scolastico (che potrebbe essere una chimera);
– si coinvolgerebbe, nel corso di questi primi due anni delle superiori, lo studente con disabilità in termini di orientamento esistenziale ovvero egli potrebbe essere supportato nel “pensarsi grande”, nel pensare al suo progetto di vita (Decreto Legislativo 96/19) in termini anche di autodeterminazione.
È proprio questo il dilemma che si consuma alle superiori: molti docenti curricolari spingono affinché sin dal primo anno, stante la normativa afferente alla citata Ordinanza Ministeriale 90/01, il PEI (Progetto Educativo Individualizzato) sia differenziato sin da subito, in modo tale da “scaricare” sul docente di sostegno la responsabilità di pensare e realizzare un percorso didattico differenziato, meglio se realizzato anche fuori dalla classe e negando così, di fatto, la possibilità di integrazione con la classe e l’applicazione dell’agognata didattica inclusiva). Al contempo, con questa proposta di immediata differenziazione comunicata ai genitori – che hanno un figlio in palese difficoltà in termini cognitivo-apprendimentali -, si veicola un messaggio inequivocabile: l’alunno non funziona in àmbito scolastico e… scoppia, talvolta, il finimondo fra scuola e famiglia che rigetta la proposta del percorso differenziato. Come si fa del resto a esigere che mentalmente delle persone adulte accettino, nell’arco di pochi mesi, una valutazione che sino a giugno era stata considerata “equipollente” a quella dei compagni del loro figliolo e che ora, in prima superiore, occorre decidere se seguire un PEID (PEI Differenziato) o un PEI Equipollente? Per quale ragionevole motivo “all’improvviso” i genitori dovrebbero digerire la proposta di un itinerario formativo differenziato, quando sino alla terza media era stato dato loro il messaggio che… “nonostante tutto andava bene così”? Il passaggio dal PEI Equipollente a un PEI Differenziato vuole un tempo di rielaborazione mentale, occorre dare tempo ai genitori di accettare che l’evidenza, restituita dalla scuola mediante verifiche e valutazioni, venga metabolizzata.
«II funzionamento di suo figlio a scuola, nella didattica, è tale da non permettergli di conseguire il titolo di studio» è un messaggio crudo, realistico, ma duro, cui ci si deve abituare lentamente, con cui occorre necessariamente fare i conti. Come si fa a pretendere un neoallineamento mentale all’evidenza sic et simpliciter? A me ricorda un po’ quello che succede nel passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria: da un setting ludico ricreativo presente nell’infanzia sino a giugno, si esige che a settembre il bimbo si adatti immediatamente a un neosetting: seduto e allineato, ciascuno nel proprio posto banco e oltremodo, al tempo del Covid-19, distanziati. Così come il bimbo ha bisogno di tempo per adattarsi, così le famiglie devono aver tempo per metabolizzare e interiorizzare quella che può essere vissuta come un’ulteriore sofferenza. E pure i docenti hanno bisogno di tempo per osservare, proporre, sperimentare, capire come fare e… accettare la situazione.
Ecco dunque quale può essere una proposta: allineare la normativa del biennio delle superiori alla normativa vigente nel primo ciclo e ciò per i seguenti semplici motivi:
1) Innanzitutto siamo nel periodo dell’obbligo scolastico, che rappresenta, per forza di cose, un continuum in ambito didattico-educativo; quindi: perché non differire la proposta di un eventuale percorso differenziato al termine del secondo anno della scuola superiore?
2) In questo primo biennio, permetteremmo alle persone-docenti di adeguare la loro azione didattico-educativa in relazione alle effettive esigenze dell’alunno che hanno di fronte, sia in termini di progetto di vita, sia in termini didattico-disciplinari nonché educativi.
3) “Concederemmo” alle famiglie di rendersi maggiormente conto della reale situazione didattica-disciplinare, indi daremmo loro tempo per accettare, in una situazione di ulteriore presa di contatto della realtà, il fatto che il PEI Differenziato, in un’ottica di progetto di vita, è la proposta più funzionale.
Occorre dare tempo, «il tempo è galantuomo!», affermava Voltaire: in un precedente mio contributo pubblicato su queste stesse pagine [“Ma il ‘tutto e subito’ è funzionale all’inclusione?”, N.d.R.] avevo evidenziato tra l’altroproprio l’importanza di rallentare il ritmo frenetico che pervade le nostre scuole e valorizzare il pensare-e il riflettere al servizio di un’integrale valorizzazione della persona umana.
Secondo quanto indicato, il biennio delle superiori si identificherebbe con quel prezioso tempo di latenza necessario affinché l’ambiente e gli adulti intorno alla persona con disabilità – genitori e docenti – si adattassero alle sue neoistanze esistenziali, oltre che didattico-educative (porre le basi per un percorso individuale da iniziare a scuola e proseguire sul territorio sia in contemporanea alla frequenza scolastica, sia dopo la maturità).
Vengo ora all’altra esigenza organizzativo gestionale dell’inclusione presso la singola scuola, che identifico con la necessità che il referente per l’inclusione interpreti il proprio ruolo in modo funzionale, sempre in un’ottica di servizio istituzionale volto all’implementazione della qualità dell’inclusione.
Prima di addentrarmi nello specifico, desidero fare un breve preambolo connesso con il nuovo paradigma dell’inclusione: pensare e agire in chiave ICF [l’ICF è la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.] Contrariamente al modello biomedico, il modello socio-antropologico dell’ICF vede la disabilità e/o il disturbo frutto dell’interazione fra individuo e ambiente di appartenenza: il contesto in cui ciascuno vive può fungere cioè da barriera o da facilitatore. Ne segue che a scuola l’ambiente può promuovere condizioni di salute psicofisica a patto che venga ad affermarsi la cosiddetta flessibilità organizzativo-didattica, che fonda la propria azione non solo sull’utilizzo di neoausili tecnologici (che oggi in epoca di DDI-Didattica Digitale Integrata si palesano come la “nuova panacea”), ma soprattutto sull’integrazione di servizi alla persona, ivi inclusa l’individualizzazione e la personalizzazione del percorso formativo, senza dei quali la difficoltà soggettiva e individuale può tramutarsi in vero e proprio handicap.
Ovvio che questo nuovo paradigma, teso a considerare la persona nella sua globalità e a pensarlo come soggetto che interagisce in un ben preciso e circostanziato contesto, si identifica con una vera e propria rivoluzione culturale che va sostenuta con adeguate risorse aggiuntive che ad oggi non si vuole immettere nel sistema scuola.
Affinché anche il mondo circostante faccia lo sforzo di adattarsi alla persona, rispondendo a precipue istanze soggettive inderogabili (diritto al ben-essere in primis), è indispensabile investire in formazione culturale affinché il nuovo paradigma dell’ICF presente nelle norme possa trovare attuazione. A tal proposito, chi scrive è arcistufo di registrare l’abisso fra il dichiarato – quanto si legge nei documenti strategici di Istituto quali il RAV (Rapporto di Autovalutazione d’Istituto) e il PTOF (Piano Triennale dell’Offerta Formativa), e quanto viene realizzato, in genere con bassa qualità inclusiva. Paradossalmente a scuola si faceva di più e meglio allorquando si parlava di integrazione e non oggi che si afferma che l’inclusione è un asset strategico di ogni Istituzione scolastica: ma spesso sono solo chiacchiere!
In tale neoprospettiva di ben-essere, l’organizzazione scuola deve garantire l’istituzione del referente per l’inclusione ovvero di un docente che, in veste appunto di referente, «collabora con il dirigente scolastico, assicura un efficace coordinamento di tutte le attività progettuali di istituto, finalizzate a promuovere la piena integrazione di ogni alunno nel contesto della classe e della scuola» (Legge 107/15, articolo 1, comma 83).
Il referente ha compiti che hanno sia una valenza connessa con la promozione di una cultura inclusiva, sia una valenza tecnico-organizzativa. Nell’area della cultura inclusiva si possono annoverare, tra le sue funzioni, le seguenti iniziative: sensibilizzazione e formazione connessa con la diversità e la didattica inclusiva; diffusione della cultura promossa dal modello sociale ICF; mediazione tra colleghi, famiglie, studenti e operatori socio-sanitari; sostegno ai rapporti interistituzionali nella prospettiva della promozione di una rete con il territorio.
Nell’àmbito invece del supporto tecnico-organizzativo, il referente per l’inclusione dovrebbe: fornire informazioni connesse con le disposizioni normative; dare indicazioni su strumenti anche compensativi, atti a facilitare il realizzarsi di percorsi didattici personalizzati; coordinare azioni volte a sostenere la realizzazione di buone prassi; promuovere la cultura del cambiamento in termini strategico-metodologici. (Ovviamente per sostenere questo immane lavoro di coordinamento è necessario che il docente referente per l’inclusione sia distaccato dall’insegnamento e inserito nell’organico dell’autonomia, ove possa gestire direttamente i vari aspetti operativi, ma che io sappia i Dirigenti Scolastici non facilitano tale prospettiva, tutt’altro…).
Ivi, a onor del vero, va sottolineato che la figura del referente per l’inclusione non è a tutt’oggi ben delineata in termini giuridici e quindi esiste un palese gap fra il dichiarato nelle norme (la citata Legge 107/15, cosiddetta della “Buona Scuola”) e quanto pragmaticamente si può fare nel quotidiano di ogni scuola secondaria di secondo grado.
Ebbene, a mio modesto parere, sintanto che i due punti suindicati non verranno ad essere ben delineati, vale a dire attuare da una parte la normativa sul Pisano Educativo Individualizzato Differenziato da estendere al biennio delle Superiore, delineare, dall’altra, la figura del referente per l’inclusione, la comunità educante non sentirà la responsabilità di rispondere alle effettive esigenze che emergeranno dall’area degli studenti con BES, con disabilità in primis, in quanto non si fa né idonea promozione culturale, né adeguata formazione.