In occasione del 27 gennaio, Giorno della Memoria [di tale ricorrenza si legga ampiamente anche in altra parte del nostro giornale, N.d.R.], è interessante riportare alla luce la storia di Ida Maly, un’artista austriaca, internata nel manicomio di Am Feldhof a Graz per tredici anni, dal 1928 al 1941, con la diagnosi di schizofrenia e successivamente uccisa dai nazisti durante il programma di sterminio Aktion T4.
Nei primi anni del Ventesimo Secolo i manicomi e le istituzioni psichiatriche si diffusero in tutta Europa e oltre a custodire “malati di mente”, vagabondi, diseredati e asociali, segregavano anche donne ritenute “non conformi” agli stereotipi femminili imposti dalla società patriarcale: il modello imposto alle donne, infatti, era di sposa e madre e qualunque altro comportamento era considerato come anormale e deviante, così come il tentativo di indipendenza economica o il desiderio di realizzarsi professionalmente.
La presenza femminile nei manicomi era maggioritaria, ma all’interno delle istituzioni psichiatriche non era possibile esprimersi liberamente e alle donne era concesso ricamare, recitare versi religiosi, ma soprattutto tacere. Molte donne trovarono il modo di resistere e grazie ad alcune produzioni artistiche, sopravvissute al silenzio e alla reclusione, abbiamo oggi la possibilità di conoscerne la storia.
È appunto il caso di Ida Maly. Nata a Graz nel 1894 in una famiglia borghese, fin da ragazza si mostrò interessata al mondo artistico frequentando il liceo, la scuola d’arte e un corso di pubblicità, fino al trasferimento nel 1914 a Vienna dove si iscrisse all’Accademia di Design per l’Arte. Tuttavia la sua vita non fu facile, non riuscì a laurearsi a causa delle difficoltà economiche, si trasferì in diverse città dove si barcamenò tra lavori saltuari.
Nel 1920 rimase incinta di uno studente che però decise di non sposare. Nel 1923, non riuscendo a conciliare il ruolo di madre single con la precaria situazione finanziaria, diede la figlia Elga in adozione a una coppia di contadini di Graz. Probabilmente, questa sofferta decisione fu una delle cause della futura malattia.
Nel 1925 visse per un breve periodo a Parigi dove, per sbarcare il lunario, ritraeva gli avventori del Cafè la Rotonde, ma nello stesso anno, sempre per difficoltà economiche, fu costretta a tornare in Austria, dove il 1° agosto 1928, a causa di un “comportamento aggressivo”, fu ricoverata, come detto, nella struttura psichiatrica di Am Feldhof a Graz con la diagnosi di schizofrenia.
Le situazioni che aggravarono la condizione di Ida Maly furono la precarietà economica, la lontananza dalla città natale, la difficoltà emotiva per la sorte della figlia considerata illegittima e la discriminazione subita, perché la sua vita non corrispondeva allo stereotipo femminile tradizionale.
Della vita manicomiale di Ida non si seppe nulla, sopravvissero alcune sue opere grazie all’amica storica e compagna Marta Newes, che non smise di starle vicina e che le procurò anche il materiale per dipingere durante il periodo dell’internamento. Inoltre, con l’annessione dell’Austria alla Germania venne rafforzato il Codice Penale che considerava l’omosessualità come un reato: tra il 1938 e il 1943 nella città di Vienna 1.162 uomini e 66 donne vennero imprigionati.
L’11 febbraio 1941 la madre di Ida ricevette una lettera dal manicomio di Graz con la quale veniva informata del trasferimento della figlia al Centro di Sterminio di Hartheim, ma le veniva proibito di farle visita.
Nel 1939 il Castello di Hartheim, inizialmente palazzo rinascimentale adibito a istituto di beneficenza e ricovero per bambini e bambine con disabilità psicofisica, venne requisito dai nazionalsocialisti e adibito a centro di uccisione per l’Aktion T4: tra il 1940 e il 1944 furono uccise circa 30.000 persone classificate come “indegne di vivere” per la loro disabilità psicofisica o perché considerate asociali. Ida trovò qui la morte e la famiglia ne ricevette comunicazione tramite una falsa diagnosi di polmonite, il 20 febbraio 1941.
Nelle opere di Ida Maly, risalenti al periodo dell’internamento, l’universo femminile è protagonista, rappresentato con diversi stili e tecniche. Si vedono tracce dell’esperienza manicomiale spesso accompagnate da testi riferiti alla vita nell’istituzione psichiatrica, che denunciano pratiche di sorveglianza e controllo e alcune osservazioni sull’ascesa del nazionalsocialismo.
Nell’opera Senza titolo qui in alto riprodotta, Maly rappresenta una sala-soggiorno dell’ospedale psichiatrico dove si raffigura frammentata, con il corpo diviso in un mosaico composto da diverse forme e colori, surreale durante l’atto di dipingere, adagiata su una chaise longue, circondata da pennelli, colori e altri materiali. Lo sguardo della protagonista è orientato verso una scatola-televisore all’interno della quale si vede una figura onirica, incastrata e sofferente, che fissa a sua volta la donna sdraiata.
La visionarietà tagliente di Maly ci mostra la vita in manicomio: sullo sfondo figure simili alle sue, anch’esse scomposte e dalla fisicità inconsueta, impegnate nel disegno o incuriosite dall’attività altrui.