Disabilità e omoaffettività: un doppio passo da compiere

di Simone Fanti*
«Dichiararsi omoaffettivo - dice una psicologa dello Sportello Lgbt+ di Milano - significa riconoscersi dopo un percorso sofferto e lungo, sconfiggendo in primis l’omofobia “interiore”, figlia di una cultura in cui siamo cresciuti. E poi con una omofobia sociale. Nel caso di persone con disabilità, il problema si complica ulteriormente, in quanto gran parte della società non ne riconosce la sessualità, per molti sono quasi asessuali». «È dunque un doppio step - commenta Simone Fanti -: affermare la propria sessualità ed esprimerne una differente dai canoni del pensar comune»

Persona sfuocata sullo sfondo, dietro ai raggi di una ruotaQualche giorno fa, quando ancora la mia Regione era in “zona rossa”, un amico con disabilità mi dice: «Sarà il primo lockdown da convivente con il mio compagno». E mi racconta la decisione di dichiararsi al mondo. Non tutte le quarantene, dunque, vengono per nuocere.

Non so cosa voglia dire amare una persona del proprio sesso: l’omoaffettività è un’attrazione che non ho mai provato. Conosco, però, bene l’amore per una persona e credo che non esistano differenze.
Già, l’amore, quel sentimento dai mille volti che ci fa sopportare i pregi e amare i difetti (non è un refuso) del partner, adorare certi suoi vezzi ed espressioni… e, persino, i suoi lati oscuri. Così, nell’affrontare il rapporto tra disabilità e omosessualità, mi pongo come osservatore che cerca di tenere a freno i miei “pre”- giudizi, intesi come idee preconcette. Nessuno di noi ne è scevro. Il diverso da sé spaventa, che sia omosessuale, straniero, disabile o semplicemente eccentrico. Osservo e non giudico.

Nel mio percorso di vita ho incontrato tante persone e molti amici Lgbtqiap (accorciato in Lgbt+) che decriptato indica: lesbiche (L), gay (G), bisessuali (B), transgender (T) queer (Q), intersessuali (I), asessuali (A) e pansessuali (P). Alcuni sfoggiavano il loro orientamento sessuale, altri lo nascondevano. Alcuni erano “più risolti”, altri erano in perenne lotta con se stessi alla ricerca del giusto equilibrio. Empaticamente avvicino il loro percorso al mio in cui una cesura, nel mio caso la paraplegia e nel caso di questi amici il coming out, ha modificato l’esistenza. Esiste per entrambi un prima e un dopo.
È il pensiero che mi resta in mente mentre parlo con Angela Campanelli, psicologa, psicoterapeuta e coordinatrice dello Sportello Lgbt+  di Milano. «Il coming out – spiega – è la presa di responsabilità verso se stessi nel riconoscere la propria identità sessuale, è un punto di non ritorno. Da quel momento, che di solito parte dalla cerchia di amici e dai parenti, tutto attorno cambia: la famiglia può accettare o meno la scelta, può interrogarsi – reazione più comune – e chiedersi “dove abbiamo sbagliato con te?”. Gli amici si diradano con la “scusa” di non riuscire a gestire la situazione. Si reimpara a condurre la propria esistenza con il mondo e le relazioni con le persone».
Mi distraggo e penso «ma di chi sta parlando?». Nei mesi successivi al mio incidente, infatti, la mia famiglia si è torturata nel pensiero di non essere stata in grado di proteggermi dal mondo, gli amici si sono dati pian piano alla macchia, alcuni li ricordo fermi sulla porta del reparto con gli occhi lucidi a piagnucolare «non ce la faccio». E poi i mesi di riabilitazione fisica e relazionale. A me resta la rabbia dettata dal pensiero «perché proprio a me» o dall’idea che l’altra vita avrebbe potuto essere migliore. Forse.

«Dichiararsi omoaffettivo – prosegue Erica Fiacconi, psicologa dello sportello Lgbt+ – significa riconoscersi dopo un percorso sofferto e lungo, sconfiggendo in primis l’omofobia “interiore”, figlia di una cultura in cui siamo cresciuti. E poi con una omofobia sociale. Nel caso di persone con disabilità, il problema si complica ulteriormente, in quanto gran parte della società non ne riconosce la sessualità, per molti sono quasi asessuali». È dunque un doppio step: affermare la propria sessualità ed esprimerne una differente dai canoni del pensar comune.
E lo Sportello Lgbt+ – presente a Milano e a Bergamo (tel. 375 6031624, lunedì-venerdì, ore 17.30-19.30) e a Ragusa (tel. 329 4924554, lunedì-venerdì, ore 16-17) – si occupa di offrire assistenza psicologica, consulenza e a fare da ponte tra la persona e i servizi e le associazioni presenti sul territorio. «Fare comunità insomma – chiosa Elvira Adamo, che cura lo sportello ragusano -. Qui abbiamo il supporto dell’AGedO, l’Associazione che riunisce i genitori di ragazzi omosessuali, ma la mentalità è ancora un po’ arretrata rispetto a Milano, per fare un esempio. Ci sono pochi servizi e stiamo lavorando per creare una comunità che riesca ad abbracciare e prendersi cura anche dei nuovi arrivati».

«Nella mia esperienza – conclude Campanelli – ho visto molta attenzione da parte delle comunità Lgbt verso le persone con disabilità acquisita. C’è empatia e comprensione rispetto alle ferite che la condizione di disabilità infligge, ferite simili a quelle inferte dal travagliato percorso al riconoscimento della propria identità sessuale». Si tratta di una tendenza, non della totalità, ma il fatto che le nuove generazioni siano più aperte nell’accettare la diversità fa pensare che anche per le persone con disabilità possa diventare più semplice esprimersi liberamente.

Testo già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Disabilità e omoaffettività: l’abbraccio della comunità Lgbt+”). Viene qui ripreso – con minimi riadattamenti al diverso contenitore – per gentile concessione.

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