Ognuno di noi vede e comprende la realtà attraverso opinioni precostituite dalla propria storia personale e dal suo modo di interpretarla. È così che ci si crea il proprio punto di vista.
Questo vale anche per le aziende e per le persone con disabilità. L’imprenditore vede nella persona con disabilità un lavoratore non ideale da assumere, mentre il disabile considera l’azienda depositaria di un suo diritto al lavoro negato. Ognuno con il proprio punto di vista, con le proprie esigenze, ambedue condizionati da leggi che si fondano su bisogni non condivisi. Ne consegue che l’azienda, di fronte a una richiesta di inserimento, attiva sempre atteggiamenti di difesa e di chiusura, in quanto ritiene che le persone con disabilità siano “gli handicappati”, “gli schizzati”, “i mutilati”, “quelli in carrozzina”, ovvero lavoratori scarsamente produttivi, da seguire costantemente, perennemente assenti per malattia, beneficiari di una quantità di permessi speciali, troppo tutelati dai Sindacati e dalle Associazioni. Di conseguenza li assumono perché sono soggette ad un obbligo di legge e non per un sentito dovere sociale.
Non per questo, però, l’imprenditore è un nemico da sconfiggere o un oppositore da piegare: è soltanto un soggetto sociale a cui è imposto un obbligo complesso, che non comprende e non sa gestire.
La sensazione che le imprese siano poco sensibili al tema dell’inserimento al lavoro è una convinzione ampiamente diffusa, ma questa constatazione, seppure giusta, è totalmente improduttiva, in quanto non ha prodotto e non produce nessun cambiamento migliorativo. Non è infatti sostenendo i propri diritti e utilizzando un linguaggio burocratico, ideologico o moralistico che si ottiene l’apertura delle imprese pubbliche e private. La conoscenza e il rispetto passano attraverso la comprensione dei bisogni dell’Altro e l’uso di un linguaggio a lui comprensibile. E non è nemmeno con l’arroganza impositiva, con il principio ideologico, il dovere normativo, la confutazione teorica, la promessa di un valore aggiunto, che si riuscirà cambiare la sensibilità e la disponibilità dell’Altro.
Il “mediatore” deve quindi partire dall’azienda e proporre soluzioni che soddisfino i bisogni dell’imprenditore. Spetta al mediatore stesso evitare inutili atteggiamenti reattivi e aggressivi che compromettono gli esiti positivi ed esasperano la constatazione vittimistica che le aziende non vogliono le persone con disabilità e acuiscono l’inutile desiderio di rivalsa attraverso l’inasprimento degli obblighi e delle sanzioni.
Le convinzioni e i pregiudizi possono essere confutati solo con l’esperienza diretta e il sostegno di servizi territoriali credibili. Solo in questo modo, infatti, si può ottenere la disponibilità dell’imprenditore, riuscendo in tal modo a realizzare inserimenti mirati positivi.
Se avessimo dunque ascoltato le aziende, compresi i loro bisogni e utilizzato il loro linguaggio, forse avremmo cambiato da tempo le politiche attive per il lavoro e il nostro modo di rapportarci al mondo e al mercato del lavoro. Se pertanto vogliamo aiutare le persone con disabilità a trovare una collocazione e restarci, dobbiamo evitare di rivolgerci alle aziende con le loro stesse rigidità, pregiudizi e contrapposizioni. Ascoltare gli imprenditori, consapevoli che spesso l’ostacolo più grande all’inserimento è rappresentato dai capireparto e dagli stessi dipendenti. Siamo ancora lontani dalla legittimazione/inclusione sociale delle persone con disabilità e sta nella risposta ai bisogni delle imprese la soluzione di una “buona occupazione” per le persone con disabilità stesse.
Questa è la sola porta d’accesso, il resto è un muro invalicabile. Continuando a rapportarci come sempre, e con gli stessi mediatori, la comunità continuerà a sperperare risorse economiche e a sostenere servizi inefficaci. È necessaria un’inversione del paradigma da sempre in uso nel mercato del lavoro “debole” – non dal disabile all’azienda, ma dall’azienda al disabile – fornendo al contempo il personale incaricato e riorganizzando i servizi.
A parere di chi scrive, l’affermarsi dell’approccio basato sulla centralità dell’azienda nel processo di inserimento e di mantenimento del lavoro delle persone con disabilità è il presupposto per poter conseguire risultati soddisfacenti e costruire in futuro un efficace sistema di collocamento.
Purtroppo, in un ventennio di applicazione della Legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili), si è posta l’attenzione alla sola persona con disabilità, mentre le aziende sono rimaste “l’altra parte”, sconosciuta, spesso arroccata e ostile. Una controparte che ha risposto con l’evasione e l’elusione degli obblighi, o che ha ricercato i “disabili-abili” da assumere, a fronte di Uffici Provinciali burocratico/impositivi e servizi territoriali scoordinati e inefficaci.
Tutto questo, unito alla crisi economica, alla rivoluzione tecnologica, allo sviluppo dell’automazione, all’ingresso dell’intelligenza artificiale nei processi produttivi e infine alla pandemia, ha fatto sì che il sistema del collocamento delle persone con disabilità fallisse il suo mandato istituzionale e sociale. Pertanto un numero crescente di persone con disabilità rischia di non entrare nel mondo del lavoro, di vivere ai suoi margini, o di essere espulso se già collocato.
Oggi la situazione si sta aggravando rapidamente: basti ricordare che al termine della proroga dei licenziamenti causati dal Covid, un’ampia schiera di persone con disabilità perderà il posto di lavoro, e molti di loro non avranno alcuna possibilità futura di ritrovare un’occupazione. Ma, nonostante tutto, ci sono molte aziende disponibili, forse più di quello che comunemente si pensa. Spetta quindi a chi si occupa di disabilità/lavoro sviluppare nuovi servizi e diffondere una rinnovata cultura dell’inclusione lavorativa, dalla quale, purtroppo, è ancora lontana la società, ma anche la classe politica che la rappresenta.
In tal senso è sufficiente leggere il testo del Recovery Plan, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), elaborato per l’utilizzo dei fondi stanziati dal “Recovery Fund” dell’Unione Europea, per rendersene conto. In questo importante documento di programmazione, infatti, che dovrebbe disegnare la ripresa socio-economica dell’Italia, l’unico accenno al lavoro per i disabili si riduce a questo: «Per garantire l’indipendenza economica delle persone disabili e vulnerabili e la riduzione delle barriere di accesso ai mercati del lavoro attraverso soluzioni di Smart Working…».
Premesso che nessun tipo di rapporto di lavoro produce occupazione, questo strumento, così com’è presentato, rischia unicamente di essere l’alibi ad una nuova forma di emarginazione. Il lavoro per le persone con disabilità è strumento di inclusione, socializzazione, affrancamento dalla famiglia, autonomia, identità personale e ruolo sociale; è principio di appartenenza. Il lavoro è salute, è voglia di vivere, è qualità di vita, è tutto (spesso mi sono sentito dire dalle famiglie, dai medici e dagli operatori sociali che «le cose sono cambiate da quando ha iniziato a lavorare»…). Lo smart working (“lavoro agile”) deve pertanto essere utilizzato per coloro che non hanno alternativa all’esilio in casa, deve essere autorizzato solo da un soggetto competente e accettato dalla persona interessata. Non può essere un modo per aggirare l’assunzione in azienda, alleggerire gli obblighi di legge e per confermare i pregiudizi che le aziende spesso hanno nei confronti delle persone con disabilità.
Ascoltare il portatore di bisogni è l’unica strada perseguibile per avere una risposta positiva ai propri. Questo vale per la classe politica, per i servizi preposti, per le imprese e anche per le persone con disabilità!