Il dibattito è accesissimo sull’introduzione del nuovo PEI (Piano Educativo Individualizzato) su base ICF (Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute): chi lo ha plaudito come la rivoluzione in grado di cambiare la qualità dell’inclusione scolastica, e chi lo ha definito come un ritorno alle classi differenziali.
Non concordo con le due posizioni estreme e assumo un atteggiamento di cautela: è vero che il nuovo approccio in un’ottica biopsicosociale è un passo avanti, ma certamente la rivoluzione non viene dal PEI. Ancora meno concordo con chi lo definisce un balzo indietro di cinquant’anni: il PEI non è capace di fare nemmeno questo.
Sostanzialmente non concordo con l’esagerata centralità affidata al PEI in questo specifico frangente e ritengo che i veri problemi legati all’inclusione scolastica stiano altrove.
Il casus belli oggi è l’esonero [la circostanza che gli/le studenti con disabilità possano essere esonerati/e da alcune discipline, N.d.R.]: qualcuno si è messo a contare quante volte la parola “esonero” fosse riportata nelle Linee Guida e nel Decreto Interministeriale 182/20.
Racconterò una storia riportatami da una famiglia: Lucia (nome di fantasia) negli ultimi due anni ha frequentato la scuola superiore a singhiozzo. È stato molto difficile riuscire a farla frequentare a causa delle sue rigidità comportamentali, nonostante l’impegno della madre e degli operatori della scuola per cercare di farle trascorrere a scuola più tempo possibile. Si è adottata per lei una programmazione differenziata, per consentirle di essere valutata almeno nelle materie in cui frequentava. La scuola ha approntato per lei un progetto che fosse orientato a farle conseguire, insieme alla sua classe, un attestato di qualifica legalmente riconosciuto, acquisibile al terzo anno di un istituto professionale.
Certo, le difficoltà potevano essere molte in sede d’esame, considerata la DAD [didattica a distanza, N.d.R.] e la sua difficoltà a frequentare le lezioni. Le incognite c’erano, ma l’obiettivo era chiaro. Tanto lavoro è stato fatto e ce l’ha fatta: a dicembre scorso ha conseguito la qualifica. Non sarebbe stato possibile nemmeno presentarla in sede d’esame, se il suo PEI non avesse consentito una frequenza ad orario ridotto, se non fosse stata, di fatto, esonerata da alcune materie. In questo caso l’esonero – che ancora non aveva questo nome – è stato un fattore determinante per ottenere il risultato.
Cosa ha fatto dunque la differenza? Le persone. Prima di tutto la madre che ha da subito compreso l’opportunità nonostante le difficoltà, gli insegnanti curricolari e di sostegno, l’assistente educativa e ultimo, ma non per importanza, il dirigente scolastico, che ha fortemente sostenuto tutto il percorso e agevolato il raggiungimento degli obiettivi.
Oggi Lucia ha una qualifica regionale come i suoi compagni, legalmente valida, spendibile sul mercato del lavoro. Il PEI è stato un validissimo strumento al servizio di Lucia e delle persone che hanno, tutte insieme, lavorato per lei, spostando il focus dalla didattica al progetto di vita, progettazione che continuerà lungo tutto il suo percorso scolastico fino al conseguimento dell’attestato di frequenza al quinto anno.
Il PEI è stato un tassello importante, ma rimane uno strumento che può essere compilato nel miglior modo possibile, che può apparire perfetto, con obiettivi didattici ed educativi mirabolanti e che fa presto a trasformarsi in mero adempimento burocratico, se non applicato dalle persone che dovrebbero farlo e senza un controllo nel raggiungimento degli esiti.
Come detto in apertura, infatti, i problemi seri legati all’inclusione scolastica stanno altrove e sono principalmente legati alle persone che lavorano dentro la scuola e al metodo di reclutamento delle stesse.
In primis il balletto delle cattedre di sostegno che si ripete, uguale a se stesso, anno dopo anno. Durante quest’anno, con la riapertura delle graduatorie, trasformate da graduatorie di istituto a graduatorie provinciali e creando le graduatorie per il sostegno di prima e seconda fascia, si pensava che i tempi di assegnazione delle cattedre si sarebbero ridotti. Questo non è avvenuto e i tempi, in molti casi, si sono rivelati esageratamente dilatati. Nemmeno la priorità nella redazione delle cosiddette “graduatorie incrociate” ha mitigato il disagio; insomma nulla di fatto. La convocazione del personale rimane tardiva e da graduatorie costruite con criteri poco efficaci, che non garantiscono, tra le altre cose, la continuità didattica. Risultato: si assegnano cattedre ad insegnanti di sostegno senza titoli né formazione e, fin troppo spesso, senza il minimo delle attitudini personali necessarie.
È urgentissimo, pertanto, cambiare il sistema di reclutamento degli insegnanti di sostegno; non basta la formazione o la specializzazione, è necessaria anche una valutazione attitudinale.
Fare l’insegnate non è un ripiego, men che meno lo è lavorare sul sostegno; l’importanza di questo ruolo spesso non è compresa né percepita sia dagli insegnanti curricolari che dagli stessi insegnanti di sostegno. Ed è altrettanto urgente incrementare i posti disponibili nei corsi di specializzazione, snellendo le procedure di selezione in ingresso e aggiungendo una valutazione di tipo attitudinale che al momento non è prevista.
In questo quadro generale spiccano talvolta insegnanti preparati e con buona predisposizione personale che svolgono un ottimo lavoro e che saranno prontamente assegnati altrove l’anno successivo.
La formazione continua e obbligatoria è essenziale: questo vale per gli insegnanti di sostegno e per quelli curricolari; bene, quindi, lo stanziamento nella Legge di Bilancio di fondi destinati alla formazione dei curricolari che è, tuttavia, solo un piccolo passo nella giusta direzione (venticinque ore di formazione obbligatoria sono effettivamente poche).
Per quanto poi riguarda il nodo degli assistenti educativi scolastici, qui si parla di un servizio fondamentale previsto dalla Legge 104/92 e in capo agli Enti Locali (Comune per la scuola primaria e secondaria di primo grado, ex Province o Città Metropolitane per la secondaria di secondo grado), senza il quale il diritto allo studio di molti studenti con disabilità non sarebbe garantito. Allo stato attuale, però, non esiste nemmeno una definizione univoca di questa figura che ha vari appellativi e acronimi in tutto il territorio nazionale, con conseguente disomogeneità di percorsi di studio, titoli e inquadramenti contrattuali. Capita sovente che sia l’unica figura all’interno dello staff scolastico con un background e una formazione specifica e che sia in grado di parlare la stessa “lingua” delle équipe psicoeducative che seguono gli studenti con disabilità nelle ore extrascolastiche.
Il servizio viene affidato tramite appalto alle Cooperative Sociali, il riconoscimento economico è bassissimo. In giro per l’Italia si verificano situazioni in cui il diritto di questi lavoratori e il superare il limite dello sfruttamento va sul filo del rasoio. Tutto ciò impatta notevolmente sulla qualità del servizio e, di conseguenza, sul processo di inclusione scolastica.
Cosa fare quindi? L’educativa è un servizio scolastico e il personale dev’essere a sua volta scolastico; nell’attesa che al Ministero lo capiscano, è necessario far presente agli Enti che le remunerazioni devono essere adeguate alla professionalità delle persone e che il ribasso, in questi casi, fa grossi danni alla qualità dell’inclusione scolastica per gli studenti con disabilità.
Uno dei grandi campanelli d’allarme e di cui si vocifera da più parti (a giudicare dalla Relazione Tecnica sulla Legge di Bilancio per il 2021, più che voci sembrano una tendenza esplicita) è quello che vede una riduzione delle ore di sostegno a favore di quelle di educativa; se questo deve avvenire solo in ottica di risparmio è un grosso danno per tutti. Perciò, l’assegnazione delle ore di educativa dev’essere fatta sulla base delle reali esigenze dell’alunno, anche a fronte di una diminuzione delle ore di sostegno, ma non prima di avere regolamentato adeguatamente la figura dell’assistente educativo scolastico, altrimenti si rischia di istituzionalizzare una prassi non approntata alla qualità, ma al mero risparmio erariale, oltreché rendersi complici di un’ingiustizia sociale.
Questi sono solo alcuni dei punti più critici che non consentono una piena realizzazione dell’inclusione scolastica in Italia.
Concludendo, il PEI è certamente un importantissimo mezzo che ha la funzione di dettare regole e prassi condivise per l’inclusione dello studente con disabilità e l’introduzione di questo nuovo modello merita senza dubbio un’approfondita riflessione, da fare con tutte le parti in causa, anche nell’intento di migliorarne alcune falle. Tuttavia, estremizzare in un verso o nell’altro non è utile, soprattutto se questo toglie centralità e attenzione al dibattito sulle problematiche sostanziali dell’inclusione scolastica che ancora persistono.
Gridare al lupo al lupo o festeggiare rivoluzioni è fare un po’ come lo stolto che guarda il dito.