Gioia, dolore, paura: Mario le emozioni le sa vivere e manifestare solo attraverso il corpo, travolgendo l’interlocutore con abbracci, risate o lacrime. Quel giorno di metà aprile del 2020, un giorno come gli altri da quando una delle regole supreme contro il Covid-19 imponeva il distanziamento sociale, a Mario, 50 anni e con una disabilità cognitiva, venne una crisi di pianto e a braccia aperte andò verso Noemi.
Senza che Noemi pronunciasse una parola, Mario, a metà stanza, si bloccò. Per sostituire quell’abbraccio che sapeva che Noemi non avrebbe potuto dargli, Mario strinse le braccia attorno a se stesso. «In quel caso, quell’abbraccio quasi sicuramente gliel’avrei concesso», confessa a distanza di molti mesi Noemi Figliolini, educatrice romana di 29 anni.
Noemi lavora da cinque anni presso la Fondazione Italiana Verso il Futuro, una ONLUS fondata nel 1997 a Roma da un gruppo di genitori con figli con disabilità e che oggi gestisce sul territorio capitolino sette case famiglia con progetti diversificati. Tra queste c’è Casa Futura, dove abita Mario insieme a due giovani coppie di persone con sindrome di Down, Caterina e Salvatore, Valeria e Sirio.
Prima della pandemia, in una casa famiglia per persone con disabilità, di regola si avvicendavano e lavoravano insieme diverse figure, dagli operatori socio sanitari a chi si occupa della cucina e delle faccende domestiche, dagli psicologi ai volontari, ai tirocinanti universitari. E proprio in questo via vai c’è la chiave per tenere accese le relazioni, per dare sempre nuovi stimoli alle persone con disabilità che ci abitano. In Casa Futura, poi, dove il livello di autonomia è medio-alto, le persone passavano parecchie ore anche fuori casa per lavoro, centri diurni o attività sportive.
Cosa è accaduto, quindi, nelle strutture a carattere familiare che ospitano persone con disabilità durante il primo lockdown, cioè quando dalle case famiglia come Casa Futura non si poteva più uscire e i contatti con l’esterno furono ridotti all’osso?
Quei giorni, quei mesi, Noemi ha deciso di metterli per iscritto, raccontando la vita in casa famiglia al tempo del Covid-19, mettendo insieme tutti i punti di vista dei protagonisti, gli ospiti di Casa Futura e Casa Petunia, i familiari e gli operatori stessi. È nata così una breve ricerca etnografica, realizzata con il metodo dell’osservazione partecipante, reso celebre dall’antropologo Bronisław Malinowski, che studiò la società degli orticoltori di Papua-Nuova Guinea, immergendosi nella loro vita quotidiana. La ricerca si intitola #IoRestoInCasaFamiglia e il suggerimento è certamente quello di leggerla (a questo link).
Tuttavia, per capire appieno il lavoro di Noemi, bisogna tornare indietro di qualche giorno rispetto al suo racconto, che inizia con responsabili di case famiglia che girano la città come trottole alla ricerca di mascherine introvabili e disinfettanti fatti in casa dagli operatori sociali.
Bisogna tornare a quello che potremmo definire il kickoff della partita, ovvero la decisione della Fondazione Verso il Futuro, presa in accordo con tutti i genitori, di non far rientrare nelle case d’origine Caterina, Salvatore, Valeria, Sirio e tutti gli altri, per abbassare i rischi di contagio sia per i familiari che per i figli stessi. Prima del lockdown, infatti, queste persone che abitano a Casa Futura e a Casa Petunia erano solite ritornare tutti i weekend dai genitori: occorrono anni per il distacco dalla famiglia e per il passaggio alla vita indipendente per un figlio con disabilità, a patto che si riesca a realizzare.
A questo processo, il lockdown della primavera 2020 ha impresso un’accelerata, portando con sé luci e ombre. Se da una parte, infatti, «il lockdown è stata una buona, anche se drastica, occasione di crescita personale e di presa di coscienza dell’essere adulti, del riuscire a “funzionare” davvero senza genitori», come racconta Noemi, dall’altra ha segnato una battuta d’arresto su ciò che accade fuori dalle mura protette di casa.
«Rispetto all’autonomia nello svolgimento delle attività al di fuori della casa nutro delle paure. Andare a fare la spesa, andare al ristorante o al bar o dal giornalaio, gestire ordini e pagamenti da soli e sostenere conversazioni e comunicazioni con estranei, sono state azioni limitate, se non del tutto eliminate, per ridurre contatti e situazioni rischiose a livello di possibili contagi. Temo che quando si tornerà ad una situazione di normalità i ragazzi potrebbero provare delle difficoltà, avendo perso l’allenamento», è la riflessione di Noemi.
Sta di fatto che, come ricorda Enzo Razzano, presidente della Fondazione Italiana Verso il Futuro e padre di Caterina, Casa Futura e le altre strutture dell’Associazione sono state fondate «per affrontare e risolvere il grave problema del “Dopo di Noi” e garantire, quindi, una soluzione abitativa ed affettiva ai propri figli con disabilità anche quando viene a mancare la famiglia».
E così, da marzo, la convivenza ininterrotta, soprattutto, tra le due coppie di ragazzi con sindrome di Down, fidanzate da anni, e anche le difficoltà e la paura per questi genitori di staccarsi dai propri figli non autosufficienti, sostenute in questi mesi, hanno dato vita ad una specie di grande prova generale del “Dopo di Noi”, una vera e propria costruzione del “Dopo di Noi”, “Durante Noi”.
«Piano piano dobbiamo tirarci indietro», sintetizza Enzo Razzano. «Certo, all’inizio abbiamo temuto che Caterina potesse finire in depressione come in passato; in ogni caso è meglio un mese ininterrotto con gli operatori che con i genitori». Ma, come sappiamo, non è stato solo un mese. Il cartellone colorato con le cose da fare, che si riempie di appunti sovrapposti giorno dopo giorno, appeso al muro, è il testimone oculare di un tempo che andava organizzato nel dettaglio, per trasmettere il senso che la vita continua e può essere piena di impegni anche dentro casa.
La ginnastica, le cene speciali, la musicoterapia: «Il “divertimento” in casa famiglia – spiega Noemi – è dovuto all’organizzazione delle attività messe nero su bianco da operatori e ragazzi. Dividere le giornate in impegni fissi, che si alternavano tra più seri e utili a più leggeri e divertenti, ha dato alla casa un ritmo e una routine necessari per mantenere mente e corpo attivi e per una rassicurazione mentale per chi tra gli ospiti ha bisogno di una schematicità e fissità dei momenti della giornata».
Dopo le difficoltà dell’inizio, tutti i ragazzi e le ragazze di Casa Futura e Casa Petunia hanno dimostrato una capacità di adattamento alla situazione superiore a qualsiasi aspettativa. «Loro stessi – prosegue Noemi – rassicuravano i genitori durante le videochiamate. Si sono sentiti più sicuri di sé nel prendere decisioni, tanto da non ricorrere sempre prima alla ricerca di conferma da parte del genitore».
Tutto ciò è stato possibile soprattutto grazie al lavoro degli operatori che, durante turni diventati molto più lunghi, si sono trasformati di volta in volta in animatori, personal trainer, pasticcieri, barbieri.
Eppure il lavoro di cura portato avanti da Noemi – e in generale da quelli che come lei si occupano delle fasce più fragili della nostra società, come mamme sole con bambini, anziani, minori in stato di abbandono – passa il più delle volte inosservato: è un lavoro poco conosciuto e anche poco, pochissimo remunerato, se si pensa che la paga oraria netta arriva a stento a 7 euro.
«Spessissimo mi trovo a spiegare cosa fa un educatore o un operatore socio assistenziale. Ancor prima di scegliere il corso di studi in “educatore professionale di comunità”, molte persone hanno cercato di dissuadermi perché “non si campa” a lavorare nel sociale. E purtroppo è così, nonostante sia un lavoro che richieda titoli di studio, formazione, esperienza, responsabilità della vita di altri, tanta energia mentale, confronti con figure professionali di vario livello e tanto carico emotivo»: è lungo l’elenco che fa Noemi.
«Mi chiedo soprattutto – conclude – perché non venga tenuto in alta considerazione: è un lavoro a sostegno della società, che va a migliorare la condizione di tutta la popolazione, eppure molte Associazioni, Fondazioni e ONLUS sopravvivono solo grazie a donazioni di privati e ad attività di autosostegno».
Il 1° aprile 2020, subito dopo l’ennesimo messaggio serale agli italiani in cui il Terzo Settore veniva definito dall’allora presidente del Consiglio Conte come «cuore pulsante della società» e chiamato, in pratica, ad occuparsi della distribuzione dei buoni spesa per le persone in difficoltà a causa della pandemia, numerose Associazioni del non-profit hanno lanciato l’appello #AMenoDiUnMetro [se ne legga ampiamente anche sulle nostre pagine, N.d.R.], per chiedere di non dimenticare le persone più fragili e «valorizzare concretamente» tutti quelli che per professione se ne occupano e lo fanno a meno di un metro di distanza. «Come si fa a vestire, imboccare, una persona con disabilità a distanza di un metro? Come si fa a consolare un bimbo che piange restando a distanza? […] Come si fa a farlo se mancano persino i dispositivi di protezione individuale?».
In quei giorni difficili le Associazioni non profit non sono state le uniche a denunciare l’assenza di mascherine: si andava dai sindacati della Pubblica Sicurezza alla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici che parlava di «sconcertante perdurare della mancanza di dispositivi di protezione individuale» come le mascherine Ffp2, ma anche visiere e camici adeguati.
Ma l’altro grande timore manifestato dalle Associazioni firmatarie dell’appello* era stato quello di assistere a un film già visto: i tagli ai fondi. «Per continuare a fornire servizi già ora economicamente insostenibili, va previsto un piano di sostegno specifico dopo la fine dell’emergenza, in controtendenza a quanto avvenuto negli ultimi anni, che hanno visto un continuo e significativo taglio alla spesa sociale», avevano scritto.
In attesa di capire se quei dubbi fossero fondati o no, a Roma il 2020 si è chiuso con una mobilitazione congiunta di CGIL-CISL-UIL e delle Centrali Cooperative: l’ultimo giorno dell’anno, infatti, i sindacati hanno cercato di alzare la voce su una possibile contrazione in bilancio nel 2021, che mette a rischio servizi e lavoro, perché «i servizi alla persona non sono una questione di contabilità».
*Associazione Casa al Plurale, AGCI (Associazione Generale Cooperative Italiane), Associazione Agevolando (Rete Nazionale dei Care Leavers), Centro Astalli JRS (Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati in Italia), CNCA Nazionale (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza), CNCA LAZIO, CNCM (Coordinamento Nazionale Comunità per Minori), Confcooperative Federsolidarietà, Forum del Terzo Settore del Lazio, Legacoopsociali Lazio e Rete MB Lazio (Rete delle strutture e dei servizi per nuclei vulnerabili mamma-bambino Mam&Co.).
Il presente contributo è apparso nella testata «Slow News» all’interno della serie “Fine quarantena mai”, curata da Carmela Cioffi e presentata così: «Questa è una serie su qualcosa che non esiste: la misura di civiltà del nostro Stato». Il testo viene qui ripreso con minimi riadattamenti al diverso contenitore per gentile concessione.
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