Diciassette anni fa scrissi per la testata «Educazione&Scuola» un lungo articolo intitolato 24 ore non bastano*, ove elencavo un po’ pedantemente tutte le incombenze alle quali la famiglia della persona con disabilità gravissima doveva far fronte per concretizzare la miglior vita possibile. Termini che oggi sono molto amati dai media, come “caregiver”, “resilienza” e “soggetti fragili” erano allora ignoti ai più. Ora, dunque, vorrei raccontare come lo scrivente è costretto oggi a far quadrare le ventiquattr’ore.
Migliorando il famoso slogan ottocentesco «8 ore di lavoro, 8 di svago e 8 per dormire», il vecchio caregiver dispone di 16 ore di lavoro e di 8 ore per il resto. Il resto significa dormire, fare la spesa, mangiare, sbrigare pratiche di elevata complessità burocratica, mantenere un minimo di contatti extrafamiliari (non pensino male i maliziosi: si tratta di contatti telematici con associazioni del mondo della disabilità), conversare amabilmente per alcuni minuti con il resto della famiglia, fare la revisione biennale dell’auto, pagare le tasse, respingere le insidie telefoniche di chi propone risparmi che costano il triplo ecc. ecc.
Alcune di tali azioni comportano, in tempi di pandemia, rischi non trascurabili di contagio e pur tuttavia sono indispensabili per sopperire alle esigenze vitali.
Il vecchio caregiver, deposta la mascherina chirurgica che usa in casa quando è a contatto con Silvia [la figlia con grave disabilità di Giorgio Genta, N.d.R.] (alcuni lo chiamano anche “il caregiver cortese” perché la chirurgica è detta “di cortesia) indossa una ffp2, nonché un giaccone da motociclista e casco (ma non guanti), inforca il fido Piaggio Liberty 50 cc e percorre i 200 metri che lo separano dal panettiere per acquistare focaccia (siamo in Liguria!), pane, latte e biscotti, nonché pesto e caffè per sé e famiglia. I biscotti e la focaccia sono anche per i nipotini.
Farebbe prima a piedi, ma i suoi piedi hanno alcuni problemi e poi la folle velocità di 30 chilometri all’ora del motociclo lo aiuta a respirare perché la ffp2 è perfetta o quasi per impedire al virus, ma anche all’aria, di giungere ai polmoni!
La panetteria, localmente rinomata per l’eccellenza dei suoi prodotti, è provvista all’esterno di una piccola pensilina che assicura un relativo riparo in caso di pioggia ad un massimo di due persone, mentre altre tre possono stazionare legalmente all’interno e quindi nei momenti di massima affluenza le restanti quaranta-cinquanta persone esposte al gelido grecale, passano il tempo litigando senza mantenere distanze di sicurezza.
All’interno della panetteria fa bella mostra di se una piantana dispensatrice di gel disinfettante di qualità talmente elevata da esser nota come “acquasanta”, denominazione quest’ultima causa di sporadiche discussioni tra anziane beghine e framassoni incalliti. Solitamente, essendo io agnostico, non partecipo alla tenzone dialettica.
Tuttavia, non volendo apparire scortese verso chi cuoce il pane quotidiano, ho proposto l’installazione di un totem che, oltre ad igienizzare le mani, misuri la temperatura della fronte con annesso allarme se superiore a 37 gradi e mezzo.
Le beghine hanno richiesto come optional un turibolo, essendo accertata l’incompatibilità tra l’aerosol di incenso e acquasanta e il diabolico virus.
Ma perché mai, diranno a questo punto i Lettori, questo vecchio caregiver non dorme un po’ di più e scrive qualche stupidaggine di meno?
*Pubblicato nel 2004 da «Educazione&Scuola», quel testo venne poi ripreso nel 2017 nel libro di Giorgio Genta, “Combattendo la disabilità gravissima con una vita normale”.