L’emergenza sanitaria sta influenzando la nostra quotidianità, modificando significativamente i rapporti sociali, la comunicazione e le relazioni. Anche il sistema scolastico ne è rimasto inevitabilmente coinvolto. Ora, dopo mesi di differenti disposizioni territoriali, sono tornate per la maggior parte degli alunni e delle alunne le attività scolastiche offerte tramite canali telematici e, «in ragione di mantenere una relazione educativa che realizzi l’effettiva inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con bisogni educativi speciali», la possibilità, solo per costoro, di svolgere attività in presenza (articolo 43 del Decreto del Presidente del Consiglio-DPCM del 2 marzo scorso).
Al DPCM hanno fatto seguito più Note Ministeriali (la n. 343 del 4 marzo, la n. 10005 del 7 marzo, la n. 662 del 12 marzo), per precisare o chiarire alcuni passaggi, ponendo particolare attenzione alla «possibile frequenza degli alunni con disabilità» cui ormai si associano, inseparabili, gli alunni con BES (Bisogni Educativi Speciali), che la scuola riconosce come soggetti con particolari difficoltà scolastiche.
A fronte di una normativa che prescrive la frequenza degli alunni con disabilità «nelle classi comuni» (articolo 12, comma 2 della Legge 104/92), che garantisce a tutti, indistintamente, il diritto all’educazione e all’istruzione e che ha stabilito la chiusura delle “classi differenziali” e delle “scuole speciali”, ossia dei luoghi che accoglievano alunni «scolasticamente fragili» o «non scolarizzabili» (Legge 517/77), oggi assistiamo a un rincorrersi di indicazioni da parte di provvedimenti governativi e persino ministeriali, fino a quelli territoriali e delle singole istituzioni scolastiche, che rimandano a forme di organizzazione, per altro definite inclusive, che reintroducono realtà cancellate dal nostro sistema scolastico da quasi 50 anni, ricordando le abolite “classi differenziali”.
Ovunque si legge che le classi, a fronte della sospensione delle lezioni, si aprono unicamente per gli alunni con disabilità e/o per gli alunni con BES; che in esse vi entrano quasi esclusivamente i docenti specializzati per il sostegno, forse qualche figura educativa e in rarissimi casi i docenti disciplinari. Molti genitori, fortemente preoccupati, ci scrivono, chiedendoci dove sia la valenza inclusiva di un’impostazione organizzativa che contraddice senza alcun dubbio l’approccio inclusivo che da anni caratterizza la scuola italiana.
Noi stessi ci chiediamo quale tipo di scuola si stia promuovendo, nel momento in cui, in netto contrasto con le stesse indicazioni pedagogico-culturali, si agisce per “etichette e acronimi”, indicando soluzioni che attestano la nostra incapacità di crescere, fra diversi, nello stesso contesto sociale e insistendo nel separare “i capaci dai meno capaci”.
Riteniamo grave quanto si sta verificando nelle nostre scuole e lesivo proprio dei diritti in capo a ciascun alunno che, in quanto cittadino, ha il diritto di imparare a crescere e di apprendere insieme ai coetanei in contesti inclusivi aperti e non all’interno di “classi ghetto”.
Per questo, dunque, ci appelliamo al ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi affinché, a fronte di accertate condizioni di sicurezza, per altro possibili in contesti che accolgono pochi alunni, nel pieno rispetto delle regole anti-Covid, si diano indicazioni univoche alle Istituzioni scolastiche italiane rispetto alla frequenza, per ciascuna classe, di un piccolo gruppo eterogeneo di alunni, fra cui anche l’alunno e/o l’alunna con disabilità, con la presenza, secondo il proprio orario, di tutti i docenti della classe, ovvero delle figure professionali coinvolte.