Desidero ritornare a mente fredda sulla tragedia del febbraio scorso in provincia di Treviso: il bambino di 2 anni e mezzo con autismo, Massimiliano, ucciso dal padre che poi si è suicidato. Alcuni genitori mi hanno fatto notare come non si sia messo in primo piano il diritto alla vita del bambino.
Mi devo basare sulle notizie apparse il 23 febbraio nell’articolo di Elena Filini, pubblicato dal quotidiano «Il Gazzettino», e su quelle datemi a suo tempo dall’amica Sonia Zen, indimenticabile presidente dell’ANGSA Veneto (Associazione Nazionale Genitori di Persone con Autismo), purtroppo recentemente scomparsa.
Non voglio ribadire quello che lo stesso padre ha scritto («Sarò definito un mostro»), perché tutti noi dobbiamo definire “mostro” un uomo che uccide in modo premeditato un bimbo di due anni e mezzo, suo figlio, perché disabile. Parce sepultos, “perdona ai morti”, ma la prima vittima, Massimiliano, merita tutta la nostra compassione e la ricerca delle cause che hanno portato alla tragedia, per rimuoverle, per quanto possibile, dalla nostra società.
Alla base di tutto c’è l’opinione corrente che la vita con disabilità sia peggio della morte. Ai tempi della Rupe Tarpea non si pensava neppure di chiedere alle persone sopravvissute con quella disabilità, i diretti interessati, se preferissero vivere o morire appena nati. Oggi sappiamo attraverso la nostra esperienza in organizzazioni come la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e le indagini psicologiche e sociali sulla percezione della qualità della vita, che la quasi totalità delle persone con disabilità preferisce vivere.
Purtroppo abbiamo il retaggio dell’Italia del ventennio anteguerra, quando la malattia e la disabilità erano nascoste come vergogne e l’ideale pubblicizzato dalla propaganda fascista era l’uomo forte e sano, capace di combattere e vincere, come appunto i grandi atleti dello sport e gli eroici paracadutisti delle truppe scelte, alle quali il padre e il nonno di Massimiliano appartenevano.
Questa visione della vita e del mondo è stata la prima causa sociale che ha originato la tragedia.
Nel caso del povero Massimiliano, in un primo tempo si è cercato di minimizzare la sua disabilità, riprendendo le dichiarazioni del nonno, che non voleva vedere i segnali dell’autismo nella sua famiglia. Poi si è cercato di colpevolizzare i sanitari dell’ASL 2 di Treviso, tanto che l’autorità giudiziaria ha sequestrato la cartella clinica, per il sospetto che fosse esagerata la diagnosi. Parallelamente si è cercato di dipingere il padre come in preda a un raptus di follia. Entrambe le spiegazioni sono falsità che nascondono i veri motivi della tragedia.
L’autismo è un comportamento che può essere causato da molte cause organiche, quasi sempre genetiche, in buona parte non familiari. È compreso fra altri disturbi evolutivi globali, come la sindrome di Asperger, dove non è certo la parola che manca, come invece nel caso di Massimiliano, la cui situazione nessun vero esperto avrebbe potuto confondere con la sindrome di Asperger.
È una grave disabilità che esordisce nei primissimi anni di vita e che, nella quasi totalità dei casi, non guarisce. Ma l’autismo è un comportamento che si può curare e migliorare con gli interventi consigliati dalla Linea Guida n. 21 (Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti) dell’Istituto Superiore di Sanità. I maggiori successi si ottengono con la grande precocità dell’intervento, che consiste nell’educazione speciale basata sull’Analisi Applicata del Comportamento.
Nel citato articolo del «Gazzettino» si legge che «Massimiliano sarebbe stato seguito. Subito con sessioni di psicomotricità e poi con un percorso di logopedia personalizzato». Qui non sembra che l’intervento proposto fosse quello consigliato dalla Linea Guida n. 21, perché le due-tre ore di psicomotricità e logopedia, offerte soltanto quando ce n’è il bisogno, devono essere integrate in un progetto educativo intensivo comportamentale di 25 ore settimanali, nel quale i genitori devono diventare coterapeuti e perciò devono essere formati da subito con appositi corsi (parent training). La possibilità reale di migliorare la prognosi del figlio con il loro stesso impegno allontana il senso di disperazione e il desiderio di morte.
Purtroppo sono molte le Aziende Sanitarie italiane che non sono in grado di rispondere a queste esigenze impellenti per la scarsa quantità delle loro risorse umane specificamente formate e dove le file di attesa per l’intervento sono lunghe molti mesi. Già nella prima comunicazione della diagnosi, facente parte delle cosiddette “cattive notizie”, che deve seguire regole ben conosciute, ma non sempre applicate, si dovrebbe concordare e attuare immediatamente un piano di intervento integrato che coinvolgesse i genitori, con la stessa prontezza con la quale il Servizio Sanitario risponde alle urgenze del Pronto Soccorso.
Sono queste le buone prassi sanitarie che possono evitare le tragedie.