Autismo: non temere i “falsi positivi”, ma piuttosto i molti “falsi negativi”

di Carlo Hanau*
«Abbiamo letto sui quotidiani nazionali - scrive Carlo Hanau - alcuni articoli sull’autismo, ove si riportavano numeri sulla prevalenza di questo disturbo decisamente esagerati, lamentando la mancanza di statistiche ufficiali in Italia e registrando un eccesso diagnostico da parte dei medici. In realtà molti genitori lamentano esattamente il contrario, tanto da far pensare che non si debba avere paura dei “falsi positivi”, quanto piuttosto dei molti “falsi negativi”. I dati statistici, inoltre, non mancano, quel che manca è la concreta applicazione di documenti ufficiali prodotti da tempo»
Ragazzo con disturbo dello spettro autistico insieme alla madre
Un ragazzo con disturbo dello spettro autistico insieme alla madre

In queste settimane ho avuto modo di leggere sui quotidiani nazionali alcuni articoli sull’autismo, dato che, com’è noto, il 2 Aprile sarà la Giornata Mondiale per la Consapevolezza dell’Autismo, indetta dalle Nazioni Unite. Vi si riportavano numeri sulla prevalenza dell’autismo decisamente esagerati, lamentando che non vi siano statistiche ufficiali in Italia, e sulla base della lunghissima esperienza del neuropsichiatra Michele Zappella, si registrava un eccesso diagnostico dei medici italiani, che poi sarebbe erroneamente mantenuto dai genitori stessi che resterebbero legati a quella diagnosi.

Queste affermazioni mi ricordano la falsa teoria di Leo Kanner sulla cosiddetta “madre frigorifero” quale causa dell’autismo del figlio, accreditata per mezzo secolo da Bruno Bettelheim e dalla grande maggioranza degli psicanalisti italiani, quando già nel 1969 lo stesso Kanner si era accorto dell’errore statistico commesso, scusandosi con l’Associazione dei genitori americani.
L’esperienza di un medico, sicuramente lontano dalle nostre noiose statistiche, non deve mai essere generalizzata acriticamente e neppure può essere generalizzata quella di un’organizzazione di volontariato come il Tribunale della Salute, fondato a Bologna nel 1972, di cui chi scrive è Presidente, ma devo dire che i molti genitori che si sono rivolti a noi lamentavano e lamentano esattamente il contrario: i loro pediatri, infatti, erano molto renitenti a porre il sospetto di autismo e le stesse Neuropsichiatrie delle Aziende Sanitarie chiamate a confermare il sospetto non fanno diagnosi a cuor leggero, perché sono oberate di lavoro, con gravi carenze di organico, prive di personale qualificato negli interventi basati sull’Analisi Applicata del Comportamento (ABA, fra cui comprendo anche l’ESDM, il programma Early Start Denver Model), cioè gli interventi consigliati dalla Linea Guida n. 21 (Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti) dell’Istituto Superiore di Sanità.

Da alcune statistiche dell’Emilia Romagna, che insieme al Piemonte tiene un registro di patologia per l’autismo da molti anni, si rilevava che le segnalazioni dei pediatri erano ancora molto scarse, perché sembrava prevalere un eccesso di fiducia nell’attendere che il tempo portasse rimedio alle disabilità rilevate dalle madri e dalle maestre, considerate frutto di preoccupazioni eccessive. Con questo attendismo, però, si rischia di perdere le possibilità di miglioramento che gli interventi comportamentali sono in grado di portare se iniziati nei primissimi anni di vita.
Lo screening (tipo M-CHAT), che è facile, veloce e persino incruento, dev’essere fatto dai pediatri di fiducia a 18 mesi di vita ed è essenziale perché la plasticità del cervello viene gradualmente persa negli anni successivi. Non bisogna avere paura dei “falsi positivi”, ma piuttosto dei molti “falsi negativi”.

Se è vero che in psichiatria la diagnosi viene effettuata sulla base dell’osservazione da parte del medico o dello psicologo (se ne legga anche in C. Hanau, Autismo, criteri diagnostici e prevalenza: una riflessione critica), per cui si può affermare “psichiatra che vai, diagnosi che trovi”, poiché mancano i riscontri di laboratorio cercati dalla neurologia, allora si deve fare riferimento al manuale ufficiale della Classificazione ICD dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dove i disturbi autistici sono denominati quali Disturbi evolutivi globali dello sviluppo psicologico. Altrove si ritrova Disturbi generalizzati dello sviluppo oppure Disturbi pervasivi dello sviluppo.
I CDC di Atlanta (Centers for Disease Control and Prevention) costituiscono il riferimento internazionale anche per le rilevazioni epidemiologiche biennali sull’autismo, che vengono pubblicate negli anni pari, l’ultima delle quali ho commentato lo scorso anno su queste stesse pagine (Negli Stati Uniti (e non solo) cresce la prevalenza dell’autismo nei bambini).
Se si ottiene la collaborazione delle scuole e si utilizza una squadra di specialisti che va a cercare i casi di autismo nell’intera popolazione dei bambini di 8 anni, come succede negli Stati Uniti, la prevalenza cresce, raggiungendo un caso su 54 nel 2016 (in quell’anno la prevalenza degli autismi in undici Stati USA era di 18,5 per 1.000 bambini di 8 anni (uno su 54, come detto) ed era 4,3 volte più elevata tra i maschi. La prevalenza variava moltissimo fra i diversi Stati, dal 13,1 nel Colorado al 31,4 nel New Jersey). Simili risultati si ritrovano nell’analoga ricerca europea ASDEU (Autism Spectrum Disorder in European Union), coordinata da Pisa e in quella svolta in tre località italiane dall’Istituto Superiore di Sanità.
Purtroppo molti di coloro che dicono non esservi statistiche ufficiali italiane, non conoscono neppure questa definizione, talvolta abbreviata dall’ISTAT come Disturbi dello sviluppo e ignorano l’esistenza dei Report annuali dell’ISTAT stesso, riguardanti il fenomeno. Sempre per «Superando.it» ho commentato nel 2018 il Report pubblicato in quello stesso anno (Nuovi dati statistici sull’autismo).
Un successivo Report ISTAT del 6 febbraio 2020, sulla scuola primaria e secondaria di primo grado, con glossario sui sintomi (otto coorti di età fra i 6 e i 14 anni), rilevava che nel 2018-2019 il 26,4% dei 177.000 allievi certificati in base alla Legge 104/92, con sostegno, pari a circa 46.700 allievi, presentava un disturbo dello sviluppo. Si tratta circa dell’1% del totale degli allievi, con un aumento del 23% rispetto ai dati del 2016-2017.
Qui devo rilevare che è un grande azzardo affermare che le persone con autismo in Italia siano 600.000, basandosi sulla percentuale dell’1% rispetto ai 60 milioni di italiani, perché non si tiene conto della piccola percentuale di guariti e neppure dell’aumento reale del fenomeno negli ultimi decenni, che non ha pesato sulle coorti degli adulti di oggi.
Se si guarda a un’indagine svolta tempo addietro in Danimarca su un quindicennio, il 40% dell’aumento è dovuto all’aumento reale, mentre il 60% alla migliore capacità diagnostica. Pertanto si deve considerare che la prevalenza dell’autismo nelle persone di maggiore età sia molto più bassa dell’1%.

Sapendo che la diagnosi di autismo dev’essere fatta nei primi anni di vita, è praticamente impossibile effettuarla in un adulto o in un anziano, dato che il quadro dei sintomi sovente  cambia molto spesso col passare dell’età e nessuno è più in grado di ricordare quale fosse nei primi tre anni di vita.
Per il futuro il problema non si porrebbe, se esistessero anche in Italia i centri specialistici per l’autismo di ogni età, presenti da decenni in molti altri Paesi.
Per l’attuale programmazione sociosanitaria non è molto importante individuare con precisione i casi di autismo negli adulti e negli anziani, perché al di là di ogni classificazione tutte le persone con disabilità mentale complessa – che cioè richiedono grandi risorse di personale qualificato per poter godere di una qualità di vita decorosa – devono trovare una risposta in servizi sanitari, sociali, domiciliari e residenziali e di inclusione lavorativa (si confronti a tal proposito il Documento di Posizione prodotto nel 2017 da esperti italiani a questo link, pagine 6-20).

L’andamento crescente del fenomeno in Italia negli ultimi anni è rappresentato dal Grafico 3 di pagina 5, nel citato Report ISTAT del 6 febbraio 2020, che raffronta i dati del 2013-2014 con quelli del 2018-2019, ove risulta che questo disturbo ha avuto il massimo aumento rispetto a tutti gli altri.
Va ricordato, anzitutto, che non uno ma più sintomi vengono rilevati su ciascun allievo e che l’aumento non può essersi realizzato con un travaso in questa categoria di altri disturbi facilmente confondibili, tutti aumentati, tranne il caso di quello definito “affettivo-relazionale”, che tuttavia è diminuito soltanto dell’1,4%, mentre l’aumento dei disturbi dello sviluppo è stato molto maggiore, pari al 9,4%.

In conclusione si può affermare che non mancano i dati statistici, ma semmai l’applicazione della citata Linea guida n. 21 dell’Istituto Superiore di Sanità, riguardo ai minori, e dell’altrettanto citato Documento di Posizione del 2017, che resta spesso a livello di poche situazioni privilegiate a macchioline di leopardo e per iniziativa di privati.
Per la nostra epidemiologia resta il compito di quantificare, sul grande aumento registrato ovunque, il peso del fenomeno reale e le sue cause, alcune delle quali modificabili e prevenibili, come l’età del padre e della madre al momento del concepimento, che la nostra società sposta sempre più in alto.

Presidente dell’Organizzazione di Volontariato Tribunale della Salute, già docente di Programmazione dei Servizi Sociali e Sanitari all’Università di Modena e Reggio Emilia e all’Università di Bologna (hanau.carlo@gmail.com).

Altre fonti bibliografiche utilizzate (oltre a quelle citate all’interno del testo):
° ISTAT, Conoscere il mondo della disabilità: persone, relazioni e istituzioni, 2019, pagina 47, Grafico 2.1 della pubblicazione e pagina 48.
° ISTAT, Report dell’ISTAT del 9 dicembre 2020 su L’inclusione scolastica degli alunni con disabilità – A.S. 2019-2020.
° C. Hanau, Il numero degli allievi certificati per disabilità continua a salire, in «Scienza dell’Amministrazione Scolastica», Anno 15, n. 1/2021, pagine 38-40.

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