Laura è una donna. Bella, non troppo alta. Qualche capello bianco si mescola con gli altri. Le piace camminare nel giardino di Casablu [nata nel 2000, è stata la prima casa famiglia gestita a Roma dalla Cooperativa Sociale Spes contra spem, N.d.R.]. Quando arriva qualcuno le viene incontro, ma all’ultimo si scansa: non ne incrocia mai lo sguardo.
Laura è una donna con gravissima disabilità. Ha bisogno di essere aiutata a mangiare, a vestirsi, a lavarsi. Vive a Casablu, una casa famiglia, un appartamento apparentemente normalissimo, in un condominio, ma dentro speciale: vive assieme ad altre cinque persone con disabilità e a tanti operatori che si prendono cura di loro. Spes contra spem è la cooperativa che gestisce Casablu e che è presieduta da chi scrive.
Un mese fa eravamo al funerale della mamma di Laura. Oggi sentiamo risuonare la domanda delle domande. La domanda che ciascun genitore si pone appena nasce un figlio con disabilità: «E dopodi noi?». Ne sentiamo tutta la responsabilità, stiamo rispondendo con amore, professionalità e serietà; con la ricerca della congruenza tra chiacchiere (tante) e la concretezza della charitas (1), che passa per ventiquattro persone che lavorano giorno e notte con passione e intelligenza, per il lavoro di chi le seleziona, di chi le coordina, di chi è presente (tre persone la mattina, altre tre il pomeriggio tutti i giorno dell’anno, compresa Pasqua e Pasquetta). Per il lavoro di chi in Regione e Comune finanzia, controlla e coordina un progetto come questo.
Ora un po’ di domande: di chi è la responsabilità della vita di Laura? Per quale motivo ne ha la responsabilità? Cosa bisogna fare per questa vita? Chi lo deve fare?
Alla prima domanda possiamo dare risposte diverse, alcune attengono alla sensibilità individuale di ciascuno, ma possono essere risposte forti, efficaci. Per alcuni sono una normale e ovvia risposta di fede: nel riconoscere Cristo negli occhi di Laura. Per altri sono un fatto di etica, per altri ancora di filosofia: non ci si salva da soli, o, per dirla con Lévinas e Buber – due Autori che mi sono molto cari), non si esiste se non in relazione. E il volto di ciascuno diventa responsabilità.
Un’altra risposta possibile e tra tutte l’unica categorica, è scritta nella Costituzione della Repubblica Italiana. L’ha ricordata il presidente Mattarella (2), quando ha affermato: «La nostra Costituzione, al suo articolo 3, richiede alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli allo sviluppo della personalità: è un’applicazione dei doveri di solidarietà indicati dall’articolo 2 della Costituzione. Nessuno può essere abbandonato di fronte alle difficoltà. La nostra bella Italia se perdesse – o anche soltanto se attenuasse – il senso della solidarietà e del rispetto di ogni persona, tradirebbe i suoi valori e la sua storia. Questo non avverrà».
Se dunque prendersi cura del benessere di Laura è un “dovere costituzionale”, le altre risposte avranno una risposta facile. Perlomeno in teoria. La responsabilità è, senza dubbio, dello Stato. Della comunità. Ed è una responsabilità complicata, difficile da realizzare e da concretizzare. Servono soldi (una casa famiglia costa tanto), servono persone, serve una gestione oculata. E, sopra a tutto, serve un pensiero. Come per costruire un ponte: occorre un progetto. Occorre chiedersi a cosa serve, da dove a dove, quali le ricadute di quella costruzione sul traffico, sui trasporti, sul commercio. Non basta il ponte senza la strada prima e dopo e senza un progetto globale di quella strada. Poi occorre un ingegnere per il progetto, un team di ingegneri. E gli operai, i capomastri, e poi la manutenzione, tanta…
Per la vita di Laura occorre un progetto e la stessa sequenza di domande: la sua vita è importante? Da dove a dove? Occorrono dunque professionisti per idearla, per darle un senso, dentro una comunità più ampia. Serve la manutenzione (3) che significa la formazione (costa tanto anch’essa e senza si fa la fine del Ponte Morandi!).
Le risposte alla domanda «dopo di noi?» sono state in questi ultimi cent’anni molto diverse. La Germania nazista degli Anni Quaranta ha teorizzato e programmato l’uccisione delle persone con disabilità, perché le costavano troppo (4). Poi ci sono gli istituti: ahimè, la maggior parte (i tre quarti, purtroppo) delle persone come Laura vivono in grossi istituti, più di ottanta persone assieme: non sempre in posti così grandi è possibile immaginare quella dimensione di casa così necessaria per chiunque (5). In altri casi sono state ideate e costruite piccole strutture residenziali, per sei od otto persone (come Casablu). Infine, solo pochi anni fa è stata scritta una legge dal titolo evocativo e promettente (“Dopo di noi” [Legge 112/16, N.d.R.]), peccato che non sia stata mai finanziata per come servirebbe!
Chi sono i decisori? Il team di “ingegneri progettisti del ponte e delle strade”? È la politica: i sindaci, gli assessori alle politiche sociali e, prima di loro, i presidenti delle regioni, e prima ancora chi decide il bilancio dello Stato.
Fare Politica Sociale è dunque costruire ponti. Ma fare Politica è progettare la strada fino al ponte, chiedersi dove avverrà lo scambio intermodale con treni e navi, programmare infrastrutture, ovvero avere uno sguardo di insieme e sistemico alle cose. È costruire una Cattedrale (6), cioè preoccuparsi di costruire qualcosa per altri, che sia bello e durevole, non effimero, è chiedersi la portata di ciascun intervento, il suo impatto nel tempo e sul resto della comunità.
Domande difficili? Si, certo. Ma se ben progettate le cattedrali durano millenni…
Questo periodo di Covid, come un setaccio a maglia fine, ha fatto emergere delle pepite d’oro. Operatori che al rischio della loro stessa vita si sono recati al lavoro con coraggio e determinazione, all’inizio addirittura senza mascherine di protezione, giacché erano introvabili. Non hanno fatto un passo indietro. Costretti a fare una vita privata “monacale” pur di tutelare gli ospiti delle case. Sul setaccio anche tanti familiari delle persone con disabilità in casa famiglia, che hanno accettato di buongrado le restrizioni, capendo che tutelare ciascuno, chiudersi in casa, era l’unica triste alternativa a un rischio di morte o di rianimazione. E che hanno reagito portando crostate e biscotti agli operatori trincerati in casa famiglia. Se il Covid dovesse entrare in una struttura residenziale con persone con disabilità e spesso una salute fragilissima, sarebbe un disastro.
Poi è arrivato il vaccino. E di nuovo il setaccio a maglie strette ha fatto emergere un pensiero. Chi vaccinare per primo? Senza dubbio i medici, senza dubbio gli ultraottantenni. La scienza ci dice che per proteggere una comunità fragile occorre vaccinare tutti: ospiti e operatori. Nelle RSA [Residenze Sanitarie Assistite, N.d.R.], infatti, da subito hanno fatto così. Il vaccino non copre al cento per cento, ma vaccinando tutti il rischio di veicolare il virus diventa venti volte meno probabile e le sue conseguenze, nel caso, meno nefaste. Giusto.
E le persone con disabilità, le case famiglia, gli operatori sociali? Dimenticati. Nessuno si è fatto una domanda: ma la vita conta? Ma la Costituzione, ma Mattarella, o Lévinas, o le idee per cui facevo manifestazioni con i miei compagni da giovane? Quell’idea di costruire davvero un mondo a misura di tutti?
Le idee sono importanti, il pensiero profondo deve guidare ogni scelta. Nakita, che lavora a Casablu da tanti anni con passione instancabile, che questo inverno non ha saltato un turno, una domenica, una notte, per stare a fianco e prendersi cura delle persone per cui è pagata dallo Stato, mi guarda sconfortata e mi chiede: «Luigi Vittorio, qual è l’idea che ha guidato la scelta di vaccinare i veterinari o gli psicologi prima delle case famiglia?». Io non ho trovato una risposta sensata. Chi sa rispondere, argomentando con intelligenza, a questa domanda? Dobbiamo una risposta a Nakita: perché? Qual è il pensiero? Cosa c’entra Mattarella e le sue parole con queste scelte? La Politica guidata da un pensiero al contempo alto e profondo, quando arrivano scelte concrete e difficili (pochi vaccini, tante persone, qualcuno da vaccinare subito, altri possono aspettare) deve saper scegliere. Perché vaccinare Claudia, che fa la psicologa a distanza di tre metri dal proprio paziente, entrambi con la mascherina, e non vaccinare Nakita, che si prende cura di Laura, che la mascherina non la porta, che spesso le esce un filo di saliva dalla bocca, e che a “un metro di distanza” non può certo stare per essere imboccata, vestita, accompagnata?
A inizio gennaio Spes contra spem ha convocato una riunione straordinaria dei soci. Una lunga discussione, introdotta da un video di spiegazione fatta da Nicola Panocchia, presidente del Comitato Scientifico della Carta dei Diritti delle Persone con Disabilità in Ospedale. Si vota: a Spes contra spem chi non si vaccina non potrà lavorare a contatto con persone più fragili. Unanimità dei soci.
Ecco, ad aprile 2021arriva la notizia, promessa a dicembre2020: le case famiglia saranno vaccinate. Anzi no. Anzi forse, anzi… aspettate. Si rincorrono le riunioni in Assessorato, i messaggi di rassicurazione dall’Assessore alla Sanità, della Dirigente ASL. Poi scrivono: «A maggio», nel frattempo e non si sa in base a quale strana direttiva, «un solo operatore ogni disabile». Ma a Casablu ci sono ventiquattro operatori e non altrettante persone con disabilità. Che fare? Se una comunicazione simile fosse stata data a un grande ospedale? «Cari medici, vaccineremo prima i sacerdoti in corsia, poi i veterinari, poi i formatori. A voi medici vi vaccineremo uno sì e uno no. Poi si vedrà e vi faremo sapere…». Cosa sarebbe successo? Non avremmo, tutti, protestato indignati?
Nella mia Regione, la Regione Lazio, abbiamo un Assessorato alla Sanità e all’Integrazione Socio-Sanitaria. Il Lazio è una delle migliori Regioni in Italia, la più veloce ad attuare il piano vaccinale, amici medici mi raccontano che c’è una organizzazione fantastica e un’ottima programmazione. Manca ancora un pezzo: la strada verso il ponte ed è in quella parolina, “integrazione”. Integrazione tra politiche sociali e sanitarie che ancora manca. Perché per prendersi cura della salute di Laura, non servono i medici o gli infermieri. Servono contesti di vita. Serve una visione di salute differente. È a Nakita che la Politica dei grandi ideali deve una risposta. Perché un ideale è grande solo se poi trova nella concretezza una risposta precisa. Solo se al vaglio del setaccio riesce a discernere, cioè a scegliere e a separare.
Questa è la Bella Politica nella quale, nonostante tutto, continuo a sperare: Spes contra spem.
Presidente della Cooperativa Sociale Spes contra spem, Roma.
Note:
(1) Commentando la frase trovata in una chiesa, Charitas sine modo, don Tonino Bello scriveva: «È un latino semplice, che vuol dire: amore senza limite. Anzi, per essere più fedeli alle parole, bisognerebbe tradurre così: amore senza moderazione. Smodato, sregolato» (Antonio Bello, Senza misura, La meridiana, 2010).
(2) Saluto del presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia di chiusura delle iniziative di carattere sociale, Castelporziano (Roma), 23 settembre 2019.
(3) Manutenzione viene dalla locuzione latina manu tenere, “tenere in mano”, “tenere per mano”, quindi “avere cura di”; tenere è legato alla radice sanscrita tan, che vuol dire estendere o estendersi, protendersi, propagare, tendere, tendere a, tendere un filo per la tessitura [nota di Caterina Berliri, che mi ha aiutato nella revisione del testo, N.d.A.].
(4) Si veda il bellissimo e terribile racconto Ausmerzen (a questo link).
(5) Si vedano i relativi dati ISTAT (a questo link).
(6) Enrico Letta, Costruire una cattedrale: perché l’Italia deve tornare a pensare in grande, Mondadori, 2009.
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