Il 18 marzo scorso ho iniziato le pratiche per adottare una cagnolina cucciola di cui avevo visto la foto su Facebook. Fino a quel momento ero stata molto indecisa, perché a settembre dello scorso anno avevo perso il mio Puzzola, di 15 anni, a causa di una grave malattia e ancora non riesco a superare il dolore. Mi sono resa conto però che Stuart, l’altro mio cucciolo, aveva bisogno di un compagno di giochi. Quando ho visto la foto di Ava (Matilde è il nome che le avrei dato io), me ne sono subito innamorata. Meticcia nera di tre anni, uguale identica a Stuart, stessi occhioni languidi, come avrei potuto resistere? Ho contattato quindi rapidamente la volontaria del rifugio La Voce degli Ultimi di Ceccano (Frosinone), dove si trovava la cucciola e dopo avere riempito un questionario di nove pagine, solo il 23 marzo sono riuscita ad avere il primo colloquio telefonico, che speravo mi permettesse di avere qualche informazione in più e di capire quali passi fare per una possibile adozione. E qui sono iniziati i problemi.
Al telefono la volontaria M. mi dà pochissime informazioni su Matilde (per me lei si chiama ancora così), se non che ha un carattere meraviglioso e che è molto socievole con gli altri cani, in quanto cresciuta in un branco di quaranta componenti. Oltre a questo, M. fa un veloce cenno alle difficoltà di Matilde ad andare a guinzaglio.
Vengo invece letteralmente subissata da una raffica di domande, alcune giuste e importanti, altre di dubbio gusto («Che lavoro fai?», «Con chi vivi?», «A chi lascerai il cane nel caso ti succedesse qualcosa di brutto?», e qui sono partiti gli scongiuri di rito…).
Trovo sacrosanto, da parte di chi gestisce le adozioni presso un rifugio, affrontare un colloquio con un possibile adottante riguardo la sua esperienza pregressa con i cani e lo stile di vita in generale, per assicurare che essi trovino la famiglia giusta che se ne prenda cura per sempre. Ma nel mio caso non riesco a capire quella marea di domande, sostanzialmente le stesse cui avevo già risposto compilando il questionario. Dico dunque di avere già compilato il questionario e la risposta sconcertante che ricevo è: «Ah, e chi ha tempo di leggere il questionario!».
Fin qui un po’ strano, ma tutto nella norma. “Qualcuno dall’alto”, però, mi mette una zampa sulla testa e quindi decido di proseguire la conversazione in viva voce, per far sentire alla mia dogsitter, che è al mio fianco, se quella procedura sia normale. E meno male che l’ho fatto!
Continuo quindi la conversazione, spiegando che ho una disabilità. Da quel momento in poi il tono di M. cambia repentinamente, in un’escalation di frasi offensive, che per un attimo ci fanno pensare di essere all’interno di una “Candid Camera”.
Prima fra tutte, «Ah me lo avresti dovuto dire subito che sei disabile, ho aspettato te mentre avrei potuto darla a una famiglia che vive in appartamento. Che disabilità hai?». Trattengo la nausea e il respiro e con tutta la pazienza del mondo le spiego che ho l’acondroplasia, volgarmente chiamata “nanismo”. Aggiungo che ho bisogno delle stampelle per camminare, ma che sono autonoma e indipendente e che la disabilità non mi ha impedito di prendermi cura dei miei due cani, rispettivamente per quindici e cinque anni. Le faccio anche presente che è scorretto negarmi l’adozione, senza nemmeno avermi incontrata e conosciuta.
A questo punto assistiamo al primo gran finale: «Guarda te lo dico, la volontaria che verrà a casa tua per il sopralluogo non ti darà il cane. Sicuramente dirà di no e probabilmente cercherà di convincerti che non è il caso che tu prenda un cane in generale». La mia amica ed io ci guardiamo allibite.
Ribadisco a M. che trovo agghiacciante che dica questo senza avermi mai incontrata, spiegandole anche che per il benessere dei miei cani, mi sono circondata di una rete di professionisti preparati e fidati, a tal punto che ne è nato un rapporto di amicizia. E che per consentire a Stuart di correre e giocare con altri cani, per tre volte alla settimana il mio educatore lo viene a prendere per portarlo all’asilo. Che ho una dogsitter che lo porta regolarmente in passeggiata. Che la mia casa e il mio giardino sono stati riadattati e recintati per garantire la loro sicurezza, ma niente, qualsiasi cosa dica, lei rimane ferma sulla mia disabilità.
Ecco quindi che arriva il secondo gran finale: «Ma tuo fratello e tua sorella sono d’accordo che tu prenda un altro cane?». Boom! Sento montare la rabbia sempre di più, sempre più incredula che tutto questo stia succedendo a me. Le faccio presente che sono una donna di 53 anni, che vivo da sola da una vita e che non devo chiedere il permesso a nessuno per le mie scelte e le mie decisioni. Concludo la telefonata invitandola a venire a vedere chi sono e dove vivo, prima di esprimere qualsiasi giudizio.
La mia amica dogsitter, con un’esperienza decennale di lavoro nel canile di Roma, scandalizzata mi dice che non aveva mai assistito a una cosa del genere, né si era mai imbattuta in una tale mancanza di professionalità.
Dopo neanche un’ora la volontaria M. mi manda un messaggio per informarmi che mi avrebbe chiamato la volontaria C. per effettuare un sopralluogo a casa mia, specificando che C. era una persona senza pregiudizi…
Ricevo anche un video di Ava/Matilde in passeggiata, terrorizzata e assicurata a due corde per impedirle di scappare. Nel video è palese che la cagnetta ha enormi difficoltà ambientali, informazione fondamentale per l’adozione, ma che non mi era stata affatto fornita.
I giorni successivi trascorrono con una sensazione di crescente incredulità. Non posso credere di essere stata discriminata su una cosa a cui tengo molto e che so, con tutte le difficoltà, di fare bene.
Passa il tempo, ma della volontaria nessuna traccia. Dopo un mio sollecito, mi vengono addotte delle scuse che giustificano il ritardo con dei lavori in casa. Riesco a farmi dare un appuntamento per il 3 aprile, con un successivo tentativo di spostamento, che blocco sul nascere. Ho per altro la fortissima sensazione che il sopralluogo non sarebbe mai avvenuto. E infatti…
Il 2 aprile, poco dopo le undici di sera, ossia il giorno precedente al sopralluogo, la volontaria mi conferma, tramite Whatsapp, l’appuntamento. Poco dopo mezzanotte, però, ricevo un altro suo messaggio con cui mi informa che la cagnetta non è più adottabile, perché molto instabile caratterialmente e con problemi di socializzazione con gli altri cani (!).
Strano come dall’essere cresciuta con altri quaranta cani e socievole con tutti, si trasformi improvvisamente, alla mezzanotte del giorno antecedente all’appuntamento, in un animale instabile e non socializzato. Strano che M. non si fosse premurata, in tutto quel tempo, di avvertirmi personalmente. Strano che non mi abbia chiesto se fossi interessata ad adottare un altro cane…
A quel punto, quindi, è chiaro ed evidente che i problemi comportamentali siano palesemente una scusa. Ed è anche chiaro, per altro, che se fossero venute a casa mia e avessero trovato realmente incompatibilità tra me e Matilde o che la casa non si fosse rivelata adeguata, avrei accettato la decisione per il bene della cucciola.
La mancanza di professionalità di queste persone, che avevano già deciso il 23 marzo di non affidarmi la cucciola, dopo aver appreso della mia disabilità, si commenta da sola.
Fin qui i fatti e il dato certo è che sono stata discriminata su una cosa che mai avrei creduto potesse essere oggetto di discriminazione e questo mi ha lasciato molto amareggiata. Certo, nella mia vita sono stata oggetto di molte discriminazioni, sul lavoro, nella vita sentimentale, per strada, nei locali, e ho sempre pensato “vabbè, ma non mi conoscono veramente, hanno visto solo l’esterno”. Stavolta, invece, la discriminazione è stata agita anche senza vedermi, invalidando anche la mia lunga esperienza con i cani.
Avrei potuto lasciar perdere? No, proprio no. Per due motivi fondamentali. Ho sperato che Matilde potesse far parte della nostra famiglia, già la vedevo giocare con Stuart e invece non accadrà.
Il secondo motivo è che combatto da sempre per abbattere gli stereotipi e i pregiudizi, da quattro anni anche attraverso il progetto Sensuability [iniziativa promossa da Armanda Salvucci per abbattere gli stereotipi relativi alla sessualità e alla disabilità, proponendo un nuovo modo di fare cultura attraverso tutte le forme d’arte – cinema, fotografia, pittura, musica e fumetto – , per rappresentare appunto la disabilità in un altro modo. Se ne legga già ampiamente anche sulle nostre pagine, N.d.R.]. Queste persone hanno messo in atto tutti gli stereotipi possibili sulla disabilità: disabilità fisica uguale incapacità, persona con disabilità considerata alla stregua di una bambina piccola, priva di capacità decisionale. E i Lettori avrebbero dovuto sentire il tono tenuto al telefono, quello che si usa parlando con i bambini. Mancava solo che vocalizzasse «ghe ghe ghe» e le aveva fatte tutte!
Se mi fermassi qui, sarebbe la solita denuncia che siamo purtroppo abituati a leggere e ad ascoltare. Ma stavolta non voglio fermarmi. Vorrei infatti che queste persone fossero messe nell’incapacità di nuocere sia alle persone che agli animali.
Supportata dalla mia legale di fiducia, ho svolto alcune ricerche, su cosa dicano le leggi in merito alla discriminazione in tema di disabilità. Parto naturalmente dalla Legge 67/06 che tutela appunto le persone con disabilità vittime di discriminazione, sia di tipo diretto che indiretto. Quindi, segnatamente, la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che, vale la pena ricordarlo, all’articolo 2 (Definizioni) definisce la «discriminazione fondata sulla disabilità» come «qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole».
L’articolo 5 della Convenzione stessa (Uguaglianza e non discriminazione) recita poi che «1. Gli Stati Parti riconoscono che tutte le persone sono uguali dinanzi alla legge ed hanno diritto, senza alcuna discriminazione, a uguale protezione e uguale beneficio dalla legge. 2. Gli Stati Parti devono vietare ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità e garantire alle persone con disabilità uguale ed effettiva protezione giuridica contro ogni discriminazione qualunque ne sia il fondamento».
E infine, volendo essere proprio fiscali, l’articolo 6 (Donne con disabilità) sancisce che «Gli Stati Parti riconoscono che le donne e le minori con disabilità sono soggette a discriminazioni multiple e, a questo riguardo, adottano misure per garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali da parte delle donne e delle minori con disabilità».
Un ulteriore strumento interessante è l’OSCAD (Osservatorio per la Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori), organismo interforze istituito tramite un Decreto del Capo della Polizia, nel settembre del 2010, per rispondere alla domanda di sicurezza delle categorie vulnerabili, prevenendo e contrastando i reati di matrice discriminatoria.
Da ultima, ma non ultima, la Proposta di Legge Zan, contenente misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi legati al sesso, al genere, all’orientamento sessuale, all’identità di genere e alla disabilità, che sta però aspettando ormai da mesi di essere votato in Senato (una petizione per la rapida calendarizzazione di esso è a questo link).
La discriminazione, dunque, è tutelata in sede penale, quando si tratta di atti di violenza, abusi e/o maltrattamenti nei confronti delle persone con disabilità. Il mio caso fortunatamente non è questo, ma può essere presentato in sede civile per un risarcimento, ciò che sto seriamente pensando di fare.
E in conclusione mi si lasci dire: credetemi, i cani sono molto più intelligenti degli esseri umani! Ho insegnato a Stuart, che pesa 22 chili, a non saltare addosso alle persone per fare le feste. Per quanto riguarda me, non ho dovuto insegnarglielo, lo ha capito da solo e quando lo fa (lo spirito è forte, ma la carne è debole!), non si appoggia per non farmi cadere.