Il cinema ha rappresentato tante volte la disabilità, ma forse mai in modo schietto, coinvolgente, dissacrante, rude e gioioso come in Crip Camp: disabilità rivoluzionarie, documentario distribuito in Italia da Netflix, candidato all’ultima edizione degli Oscar e vincitore del premio del pubblico al Sundance Film Festival 2020.
Prodotta dalla Higher Ground Productions di Barack e Michelle Obama, la pellicola trasferisce dal grande schermo al palcoscenico della storia la genesi del movimento per i diritti delle persone con disabilità in America.
Erano i primi Anni Settanta, soffiava il vento pacifista, c’erano la rivoluzione sessuale e il femminismo, si lottava contro il razzismo. Intanto, solo apparentemente ai margini di questo humus sociale, un campo estivo gestito da un gruppo hippy poco fuori New York, sulle Catskill Mountains, iniziò ad accogliere ragazzi con vari tipi di disabilità. Fu così che Camp Jened diventò “Crip Camp”, che tradotto significa “il campeggio degli storpi”.
Lo racconta James LeBrecht, regista del documentario insieme a Nicole Newnham. È lui, nato con la spina bifida, una delle voci narranti, lui che il campo l’ha vissuto da ragazzo e lì ha visto scoccare la scintilla che vent’anni dopo portò alla firma dell’Americans with Disabilities Act (ADA), la legge statunitense per l’abolizione delle discriminazioni basate sulla disabilità.
Camp Jened somigliava a Woodstock, si amoreggiava e si fumava, le giornate trascorrevano tra giochi e musica; nei cerchi di condivisione si poteva parlare a ruota libera di bisogni e aspirazioni. Ciascuno aiutava ed era aiutato secondo le proprie possibilità, neppure le attività più esuberanti escludevano i campeggiatori con forme di disabilità severa. L’igiene e la cura erano improvvisate, però a Camp Jened si poteva essere adolescenti senza etichette, si viveva in un altro mondo, mentre nel mondo fuori dal campo le persone con disabilità erano segregate in casa, frequentavano classi differenziali, venivano istituzionalizzate in strutture dove il rapporto ricoverati-operatori era di 50 a 1.
Quelle vacanze avrebbero potuto essere una parentesi di poche settimane, invece fecero maturare una nuova consapevolezza: la condizione di disabilità non era data dalle “imperfezioni” fisiche o mentali, ma dagli stereotipi che si riflettevano in ogni settore della società.
«Abbiamo scoperto che le nostre vite potevano migliorare. Il fatto è che non puoi lottare per qualcosa che non sai neanche che esiste», spiega uno dei protagonisti di Crip Camp.
Qui comincia il secondo capitolo del docufilm, quello della maturità, che ricostruisce le fasi di una lotta lunga due decenni. Molti di quei giovani, noti come jenediani, diventarono attivisti per i diritti delle persone con disabilità. Il già citato James LeBrecht, i coniugi Neil e Denise Jacobson (per loro galeotto fu Camp Jened), Judith Heumann, creatrice e presidente di Disabled in Action, promotrice di storiche manifestazioni a New York, Washington e San Francisco per chiedere l’approvazione della Sezione 504 del Rehabilitation Act, una misura che avrebbe obbligato chiunque usufruisse di soldi pubblici (uffici, trasporti, scuole, ospedali) a non discriminare.
Con il sostegno della società civile e delle Pantere Nere che portavano pasti caldi, Judith guidò i venticinque giorni di occupazione della sede del Ministero della Salute a San Francisco, per chiedere la firma della Sezione 504. Dal canto suo James LeBrecht, diventato un affermato sound designer, fu uno degli esponenti della corrente che all’Università californiana di Berkeley diede vita al Center for Independent Living, un centro gestito da persone con disabilità, tuttora operante per migliorare la qualità della vita.
Niente di tutto ciò sarebbe stato possibile senza Camp Jened, il trampolino da cui ha spiccato il volo una rivoluzione che ha attraversato la storia americana recente.
Crip Camp: disabilità rivoluzionarie è un racconto “molto USA”: diversi, infatti, erano il clima politico e culturale che si respiravano in Italia. Eppure anche da noi, in quegli stessi anni, era tempo di cambiare.
Lo spiega bene un altro documentario, L’estate più bella, prodotto da Tv2000Factory e diretto da Gianni Vukaj, un viaggio indietro di cinquant’anni quando un gruppo di ragazzi con disabilità sbarcò sulle spiagge esclusive di Forte dei Marmi (Lucca) [se ne legga già anche sulle nostre pagine, in “Quando bisognava lottare contro i ‘comitati anti-spastici’”, N.d.R.].
Fu un’epoca di normative che sono ancora un punto fermo, dal collocamento obbligatorio all’integrazione scolastica, passando per la legge sull’invalidità civile che rifiuta il principio dell’irrecuperabilità.
Era il tempo delle manifestazioni di piazza, come quella di Roma nel 1972, lunghe marce di sedie a rotelle definite dalla stampa come «cortei del dolore».
Anche a casa nostra ci sono figure di spicco, famose come Gabriella Bertini, prima donna italiana con disabilità a conseguire la patente, paladina pacifica dell’autodeterminazione che viveva in una sorta di “comune” sui colli fiorentini, oppure persone meno note della piccola provincia, come Paolo Bertellini, che chi scrive ha conosciuto personalmente, difensore dei diritti per sé e per tutte le persone con disabilità, a cui si devono le rampe lungo i marciapiedi di Salsomaggiore Terme (Parma), ottenuti con un instancabile dialogo con il governo locale.
In America, come in Italia, sperimentatori caparbi di una libertà possibile, senza la cui determinazione oggi l’orizzonte della disabilità sarebbe più ristretto.
Il presente contributo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Crip Camp e altre storie, la rivoluzione dei diritti”). Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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