Nel 2018, su «la Repubblica», Chiara Nardinocchi denunciò «il calvario delle donne disabili» che subiscono violenza in India facendo riferimento ad un rapporto pubblicato dall’organizzazione Human Rights Watch sull’invisibilità delle donne indiane con disabilità vittime di violenza sessuale.
In quel servizio Nardinocchi metteva in evidenza come, sebbene in India a partire dal 2013 la materia di violenza sessuale sia stata oggetto di una riforma migliorativa per le donne, quest’ultima continuasse ad essere largamente inapplicata, impedendo alle vittime di avere cure mediche appropriate e di ottenere un adeguato risarcimento. Osservava Nardinocchi: «Potrebbe sembrare una provocazione, ma spesso in India ciò che segue a uno stupro può esser peggio della violenza stessa. Soprattutto se la vittima è una donna o una ragazza con disabilità fisiche o mentali», e raccontava di donne e ragazze stuprate che spesso e volentieri, quando si rivolgono alla polizia, non vengono prese sul serio, oppure vengono sottoposte a trattamenti ritenuti disumani (come il test della verginità). A tal proposito Nidhi Goyal, attivista per i diritti delle persone con disabilità e coautrice del rapporto, ha dichiarato: «Dal 2013 l’India ha compiuto importanti riforme legali sulla violenza sessuale, ma le donne e le ragazze con disabilità non hanno ancora uguale accesso alla giustizia».
Se questa era la situazione nel 2018, oggi forse qualcosa sta iniziando a cambiare, o almeno così sembrerebbe dalla lettura della Sentenza emanata lo scorso 27 aprile dalla Corte Suprema dell’India (Giurisdizione di Appello Penale, ricorso penale n. 452 del 2021). Tale pronunciamento, prodotto dal giudice Dhananjaya Y. Chandrachud, si riferisce ad un caso avvenuto nel 2011, e riguarda una donna di diciannove anni, cieca sin dalla nascita, che è stata violentata da un amico di suo fratello. La pronuncia del giudice è interessante sotto diversi profili.
In primo luogo è stata accettata la testimonianza della donna che, essendo cieca, ha identificato il suo aggressore solo dalla voce (voce che le era familiare dal momento che egli visitava regolarmente la casa in cui lei abita con sua madre e suo fratello).
Nella Sentenza la testimonianza resa dalla donna è stata definita «affidabile», ed è stato osservato che l’identificazione «non può essere messa in dubbio semplicemente perché [la vittima] è una ragazza cieca». Nella sostanza il giudice ha attribuito a questa modalità di identificazione la medesima rilevanza giuridica pacificamente accordata all’identificazione visiva, ampliando in qualche modo la gamma degli elementi che possono essere validamente utilizzati a fini probatori nei processi giudiziari che vedono coinvolte persone con disabilità.
Ma probabilmente l’aspetto più interessante e apprezzabile del pronunciamento riguarda il profilo culturale. Nella Sentenza, infatti, vi è una parte dedicata alle Analisi (Sezione C), nella quale viene sviluppato il tema dell’intersezionalità e delle diverse sfumature dell’identità.
In essa si argomenta che l’esperienza dello stupro provoca traumi e orrore per qualsiasi donna, indipendentemente dalla sua posizione sociale nella società, ma le esperienze di aggressione sono diverse nel caso in cui la donna appartenga alla Scheduled Caste [“casta riconosciuta”, che indica uno dei gruppi sociali o etnici svantaggiati ancora presenti in India nonostante la Costituzione Indiana del 1950 ne preveda il superamento, N.d.R.] e, simultaneamente, abbia una disabilità «perché l’aggressione è il risultato dell’incastro dei diversi rapporti di potere in gioco [grassetto nostro nella citazione, N.d.R.]».
In altre parole, quando l’identità di una donna si interseca, tra gli altri fattori, con la casta, la classe, la religione, la disabilità e l’orientamento sessuale, questa donna potrebbe subire violenze e discriminazioni per due o più motivi. In situazioni del genere, si legge nella Sentenza, «diventa imperativo utilizzare una lente intersezionale per valutare come molteplici fonti di oppressione operano cumulativamente per produrre una specifica esperienza di subordinazione per una donna cieca appartenente alla Scheduled Caste». Un approccio alla violenza basato su un unico fattore di discriminazione rende invece invisibili queste esperienze minoritarie all’interno di un gruppo più ampio perché considera l’identità come “totemica” e “omogenea”.
La Sentenza continua illustrando il concetto di intersezionalità introdotto negli Stati Uniti dalla giurista e attivista per i diritti delle donne afro-americane Kimberlé Crenshaw nel 1989, e mostrando il modo in cui tale concetto può proficuamente essere applicato in àmbito giuridico.
Per spiegare come questa impostazione interessi anche le persone con disabilità, la sentenza fa riferimento alle seguenti parole di Dianne Pothier, docente di diritto e attivista con una disabilità visiva: «Non posso mai subire discriminazioni di genere se non come persona con disabilità; non posso mai subire discriminazioni per la disabilità se non come donna. Non posso disaggregarmi né può farlo chiunque possa discriminarmi. Non mi inserisco in scatole separate di motivi di discriminazione. Anche quando sembra essere rilevante un solo motivo di discriminazione, i suoi effetti riguardano la mia persona nella sua interezza» (Dianne Pothier, Connecting Grounds of Discrimination to Real People’s Real Experiences, 13(1), «Canadian Journal of Women and the Law» (2001), pp. 39, 51).
Riguardo al tema genere e disabilità, viene rilevato come «per molte donne e ragazze disabili in India, la minaccia della violenza è un appuntamento troppo familiare della loro vita, che contrae la loro libertà costituzionalmente garantita di muoversi liberamente e limita la loro capacità di condurre una vita piena e attiva». Questa minaccia di violenza può tradursi in una fastidiosa sensazione di impotenza e mancanza di controllo per le donne con disabilità, ma questa considerazione non dev’essere intesa come un’adesione allo stereotipo secondo cui le persone con disabilità sono deboli, indifese e incapaci di tracciare il corso delle proprie vite, infatti, «una presunzione così negativa della disabilità che si traduce in incapacità sarebbe incoerente con la concettualizzazione lungimirante delle vite delle persone disabili incarnate nella nostra legge e, sempre più, seppur lentamente, nella nostra coscienza sociale».
L’obiettivo della Sentenza è invece quello di evidenziare la maggiore vulnerabilità e dipendenza da altre persone, causati dall’avere una disabilità e che rende le donne con disabilità più suscettibili di essere oggetto di violenza sessuale. I fatti del caso in esame mostrano chiaramente come le donne con disabilità, che abitano in un mondo progettato per chi non ha una disabilità, sono spesso percepite come “obiettivi docili” e “vittime facili” per chi intende commettere violenze sessuali. Per questo motivo la risposta legale a tale violenza, nel caso di specie così come a livello sistemico, deve prestare attenzione a questo fattore saliente.
Una parte significativa della Sentenza, infine, è dedicata a evidenziare le ragioni uniche che rendono le donne con disabilità più vulnerabili ad essere vittime di violenza sessuale, a delineare alcune sfide che queste donne devono affrontare nell’accesso al sistema di giustizia penale in generale e al sistema giudiziario in particolare, ad individuare alcuni accorgimenti che si possono adottare per ridurre le barriere che queste donne incontrano, e a definire l’approccio giudiziario che dovrebbe essere adottato per valutare la loro testimonianza.
Insomma, quella che avrebbe dovuto essere una semplice Sentenza, in realtà si rivela essere una sorta di linea guida per affrontare i processi di violenza sessuale ai danni delle donne con disabilità. Un modello da studiare con attenzione e, perché no?, da esportare, con i dovuti adattamenti, in altri Paesi e anche in Italia, che nel 2020, riguardo al contrasto alla violenza nei confronti delle donne con disabilità, si è visto rivolgere numerose raccomandazioni da parte del GREVIO, il Gruppo di esperti/e indipendenti responsabile del monitoraggio dell’attuazione della Convenzione di Istanbul in tema di violenza di genere (si veda, a tal proposito, anche un approfondimento curato da chi scrive); lo stesso Paese – e parliamo sempre dell’Italia – che qualche giorno fa, il 27 maggio, è stato condannato da una Sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani, per avere delegittimato le vittime di stupro, trattandole come corresponsabili delle violenze subite, e per avere utilizzato la loro vita privata per motivare sentenze condiscendenti verso gli autori delle violenze, nonostante diverse norme nazionali e internazionali lo vietino espressamente (si veda in tal senso il comunicato divulgato sulla questione da DiRe – Donne in Rete contro la violenza).
Per approfondire il tema della violenza nei confronti delle donne con disabilità, si può accedere alla Sezione La violenza nei confronti delle donne con disabilità, nel sito del Centro Informare un’h, mentre sul tema più generale Donne e disabilità, si può fare riferimento al lungo elenco di testi da noi pubblicati, presente a questo link, nella colonnina a destra dell’articolo intitolato Voci di donne ancora sovrastate, se non zittite, oltreché alla Sezione Donne con disabilità, anch’essa nel sito del Centro Informare un’h.